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Padania, dove l’orgoglio leghista incontra il palato. La mappa della felicità a tavola

(di Antonio Paolini) Dal “Ginetto”, familiarissimo locale di brava gente e di ciclomaniaci a Palazzago, dove nel ’94 Bossi decise le sorti del governo nutrendosi, intanto, di assolute tipicità locali, al “Pasta e Basta” di Bergamo, uno di quei franchising replicabili ovunque, e dove il piatto della mortifera “serata delle scope” per il Senatùr detronizzato e il suo giustiziere Maroni, costretti malgrado tutto alla forzata convivenza a tavola, è stata una fin troppo simbolica (e terrona) “mezza manica all’arrabbiata”. La parabola della Lega di lotta, di governo e di soldi in Tanzania (o, se preferite, dalle canottiere ai giri di diamanti) volendo si può leggere anche così: attraverso una comparazione di ristoranti. Se l’uomo è ciò che mangia, figuriamoci il politico, specie di questi tempi, specie in quest’Italia. E non è un caso se un big nazionale della satira come Maurizio Crozza ha scelto anche lui una metafora “alimentare” per bollare da par suo la grottesca giornata dell’Orgoglio Padano: .
E chissà poi che avrebbe detto di questa pochade a base di auto di lusso, onorevoli badanti, guardie del corpo “particolari”, export di dané, lauree tanto al chilo e pasta (modesta) tanto l’etto il povero Ginetto Mazzoleni, storico presidente del Gruppo Ciclistico Palazzago e patron, all’epoca, insieme alla moglie Mary, del “Ginetto” di cui sopra. Lui se n’è andato nel 2005, a 73 anni. E la tristezza dell’Orgoglio post scandalo, quella a lui la sorte gliel’ha risparmiata.
Ma, e anche questo va detto per onor del vero, non sono né il pur “affettuoso” Ginetto né il replicante “Pasta e Basta” la misura di come si mangia in Padania. Esattamente come il livello d’istruzione di Renzo Bossi detto il Trota e il suo ormai famoso autista-bancomat non sono neanche lontanamente lo specchio di un’area larga che è, soprattutto e malgrado tutto, quella della Bocconi e dello Iulm, e di una cultura d’impresa (almeno fino a qualche anno fa) riconosciuta e apprezzata nel mondo. In Padania, questa la verità, si mangia benissimo. E c’è (e resiste, facendo muro non senza fatica contro le picconate della crisi) la più alta concentrazione italiana di ristoranti top, premiati e pluri “cappellati”, “forchettati” e “stellati”, a seconda dei simboli d’eccellenza utilizzati dalle varie Guide. Come è logico, del resto, nella fetta del Paese dal reddito medio più alto, e dove abita e consuma la maggior parte degli sparuti super-ricchi.
Parliamo di avamposti, fortini o autentici resort del gusto come “Da Vittorio” (www.davittorio.com), più che mai insider di questo mondo e tangibile simbolo della sua evoluzione. Già ubicato nel cuore di Bergamo, reso famoso dall’omonimo titolare, tavola borghese rinomata, cantina monstre, ma impianto tutto sommato tradizionale, è stato “trasportato” e trasformato dalla nuova generazione della famiglia Cerea (tutti i figli sono impegnati ad altissimo livello nella conduzione, dalla cucina alla sala e l’organizzazione) in lussuoso e sempre più “creativo” Relais Gourmand a un passo dalla Tangenziale Sud e dalla direttrice Milano-Venezia. O del “Perbellini” (www.perbellini.com), epopea e tempio di pasticceri di fama, divenuti ristoratori a tutto tondo, e oggi anch’esso complesso di rilevanti e articolate dimensioni a Isola Rizza, dintorni di Verona (e dunque orgoglio della componente veneta del mondo padano). E’ Veneto (Padova) anche “Le Calandre” (www.calandre.com ), altra famiglia al lavoro, gli Alajmo, altra storia di pasticceria e hotel alle spalle, e oggi impero del gusto con due indirizzi più shop goloso in zona, linea propria di produzione di specialità griffate ed emanazioni della casa madre a Tokyo e Venezia (il Caffè Quadri di Piazza San Marco da poco in gestione, di cui abbiamo via già parlato raccontando Venezia). Mentre si torna nel Lombardo (restando sulla piattaforma siderale delle “3 stelle” Michelin) con il Pescatore (www.dalpescatore.com) di Canneto sull’Oglio (Mantova) dove ancora (e sempre) una famiglia, i Santin, tiene banco e propone una linea di sapori raffinati, ma dalla marcata anima territoriale. E si approda infine alla periferia stretta di Milano (Cornaredo) con uno dei più trendy tra i ristoranti italiani, il D’O di Davide Oldani, già allievo di Gualtiero Marchesi e profeta della cucina alta, ma “pop” e “low cost”, con ingredienti umili, idee importanti e prezzi per tutti: 11,50 a pranzo, 32 a cena per il menu degustazione, un po’ di più (ma non moltissimo) alla carta.
Più facile, dai prezzi di Oldani, traghettarsi sull’altra sponda, fate voi se del Po o di uno qualunque dei suoi tanti affluenti, rispetto ai sunnominati templi da gourmet e “siùri” (certo non da canottiere). Una riva meno elitaria, dove tengono botta invece posti saporosamente “local”, e non per forza iscritti all’elenco degli sperimentatori, e designer della nuova cucina italiana (pardòn: padana). Posti come l’Umbreleer (www.umbreleer.it , l’Ombrellaio, a Cicognolo, Cremona), lOsteria della Villetta (www.osteriadellavilletta.com) a Palazzolo, Brescia, o Fatur (www.fatur.it) a Cisano Bergamasco, e altri ancora. Gente giusta, gente che “laùra” e cucina. Anche in tempi duri come questi. Tempi di aziende che arrancano. E di mezza clientela (quella di fede leghista) che la sera resta, amareggiata, a casa. Più che altro, a mangiarsi le unghie davanti alla tivù…