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Auditorium, di scena la virtuosa violoncellista Sol Gabetta e il maestro Pappano con l’orchestra dell’Accademia S.Cecilia

Auditorium, di scena la virtuosa violoncellista Sol Gabetta e il maestro Pappano con l’orchestra dell’Accademia S.Cecilia

(di Sergio Prodigo). Se il contemporaneo approda all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e trova spazio in una programmazione classica, mostra e rivela in tal modo la sua ragione d’essere, ossia la logica rappresentazione d’una particolare e complessa realtà compositiva e d’una multiculturalità quali emblemi del tempo presente. In simile contesto proprio il brano di apertura del concerto dell’8 febbraio all’Auditorium del Parco della Musica, Gli occhi che si fermano dell’ancor giovane e affermato compositore abruzzese Francesco Antonioni, ha avuto il pregio di palesare i contenuti più espressivi di una creatività in linea con un diverso ambitus musicale, nel quale il suono esprime la sostanza del pensiero e la forma costituisce – citando non a caso una frase del filosofo Emilio Garroni – «una sorta di riflessione in azione sull’immagine interna mediante figure.»
La breve ma intensa presentazione estemporanea, offerta al pubblico da Antonio Pappano, alla guida dell’orchestra ceciliana, di là dall’encomiabile opportunità di disvelarne i significanti, ha voluto evidenziarvi le inusuali timbricità e le attribuzioni strutturali, in modo che la susseguente (perfetta) esecuzione ne dipanasse gli intrecci e ne mostrasse le trame motiviche e accordali sulla scorta degli intenti rappresentativi. La composizione, infatti, nella forma non rigorosa di un’ouverture, si rivela più conforme alla tipologia del poema letterario (è, del resto, ispirata al romanzo Il tuo volto domani di Javier Marias), ma aliena dal puro descrittivismo e più protesa a raffigurare l’impressione o l’introspezione d’una parallela e conseguente ricerca estetica: quel che emerge e si evidenzia all’ascolto è la compattezza organica e logica del brano, coadiuvata da una raffinata scrittura orchestrale e sovente impreziosita di echeggiamenti incidentali debussyani, raveliani e stravinskijani. Logici, del resto, appaiono proprio tali richiami in un ambito storico-critico che ne presuppone conoscenza e assimilazione, non dissimili da altri che non si mancherà di evidenziare nel prosieguo della cronaca.
La cronaca, appunto, non può che rilevare la piena comprensione e il gradimento, manifestati dal pubblico al termine dell’intensa interpretazione del lavoro sinfonico: i prolungati applausi tributati al direttore e al compositore, presente in sala, ne hanno costituito l’ampia riprova.
Dipoi, un’eccezionale solista, la giovane violoncellista argentina Sol Gabetta, che ha superbamente interpretato il Concerto in mi minore per violoncello e orchestra op. 85 di Edward Elgar: composto nel 1919, appare pervaso da uno spirito tardoromantico, fortemente legato all’eredità brahmsiana, ma i toni elegiaci e le atmosfere crepuscolari s’innestano s’espandono in una classicità formale omogenea, seppur diversamente strutturata nell’accorpamento giustapposto dei quattro movimenti (Adagio-Moderato/Lento-Allegro molto; Adagio/Allegro-Moderato-Allegro, ma non troppo).
I dettagli, soprattutto relativi al primo e al terzo tempo, rivelerebbero un uso sapiente della variazione di sviluppo, frutto dell’eredità citata, ma solidamente avvinghiata alla dicotomia tematica, sempre e sostanzialmente interconnessa al succedersi di costanti transizioni modulative: il tutto s’amalgama in un tessuto orchestrale di rara coerenza, di raffinata concezione e di efficace espressività, tipici della produzione sinfonica del compositore inglese (si pensi alle Enigma Variations op. 36, alle cinque marce Pomp and Circumstance op. 39 e, in particolare, alle due Sinfonie, in la bemolle maggiore op. 55 e in mi bemolle maggiore op. 63).
Eccellente s’è manifestata, sin dal primo “attacco”, l’interpretazione che ne ha offerto la leggiadra violoncellista: quel che s’è avvertito maggiormente, di là da un suono, non sempre percepito nella sua pienezza per via di altri fattori, e di là dall’inappuntabile tecnica, è una musicalità straordinaria, in grado di rendere pienamente l’insita e intensa melodicità dei temi e la discorsività dei fraseggi, dei ribattuti, delle ampie volute scalari e degli arpeggi finali. Perfetta, del resto, è risultata proprio l’intesa di Sol Gabetta, sul piano artistico ed emozionale, con Pappano, quasi, oltre la lettura critica del testo, ne condividessero senza possibili dicotomie l’atto performativo medesimo con similari intenzionalità esecutive.
Tutto ciò si è evidenziato maggiormente nel bis concesso ad un pubblico entusiasta dalla solista e dall’orchestra: una raffinata trascrizione di un brano lirico di Gabriel Fauré, Après une rêve, tratto dai Trois Songs per canto e pianoforte op.7. Delicata e sognante, la tenue e profonda melopea s’è diffusa e dispiegata con inestinguibile languore, ma il timbro strumentale ha assunto gradualmente le sembianze umane d’una voce narrante, donando momenti di emozionale suggestione.
Sempre nel segno del tardoromanticismo anche la seconda parte del concerto: Antonin Dvořák e la celeberrima e “popolare” Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 (o n. 5, per l’omissione delle quattro sinfonie giovanili, neglette dallo stesso compositore boemo). Sembrerebbe quasi inessenziale, se non superflua, una possibile descrizione di temi, tematiche e svolgimenti di un’opera scritta verso la fine del XIX secolo in quel Nuovo Mondo, cui si richiama nella titolazione: i quattro tempi (Adagio-Allegro molto; Largo; Scherzo: Molto vivace; Allegro con fuoco) di un lavoro sinfonico, necessariamente ciclico, si avvalgono essenzialmente di spunti motivici di immediata presa e di facile assimilazione. Ipotizzarne, com’è invalso in una certa vetusta tradizione critica, una derivazione dal folklore americano – peraltro accennata ma non confermata dallo stesso Dvořák – apparirebbe forse suffragato dall’uso (moderato) di scale pentatoniche, di microintervalli e di tematismi accordali, tuttavia l’inventio è del tutto originale, pur se sovente permeata o pervasa da reminiscenze slave (come nel celebrato tema del Largo, affidato alla timbricità del corno inglese e, tra l’altro, stupendamente eseguito nella circostanza) o da dotti apparentamenti brahmsiani (l’altro celebrato tematismo del finale si rintraccia agevolmente nello Scherzo per pianoforte op. 4 del compositore amburghese).
Gratificante e appagante l’esecuzione, essenziale e conforme ai contenuti letterari l’interpretazione di Pappano, ampio e incondizionato il consenso del sempre numeroso pubblico: il programma, oltre le consuete repliche, verrà nei prossimi giorni portato in tournée in Germania (con l’inserimento della Sinfonia dal Guglielmo Tell di Rossini), anche per rendere edotti i teutonici, di là da altre “immagini” del nostro paese e parafrasando Dante, di quel che potea la musica nostra.