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Accademia di Santa Cecilia, un Beethoven “eroico” per la direzione di Semyon Bychkov

Accademia di Santa Cecilia, un Beethoven “eroico” per la direzione di Semyon Bychkov
Di Sergio Prodigo

Il concerto tematico tende a rivestirsi e ammantarsi di significati che sovente travalicano o – forse – travisano i contenuti musicali delle opere eseguite: se nell’evento della scorsa settimana gli assunti programmatici della Prigionia e della Libertà erano stati ampiamente illustrati da Pappano attraverso l’accurata esegesi del “Fidelio” e della “Nona”, alternando a Beethoven l’intensa suggestione del “Prigioniero” di Dallapiccola, nel tardo e uggioso pomeriggio di domenica 4 maggio, all’Auditorium del Parco della Musica, s’è inteso e dispiegato ancora il sinfonismo beethoveniano, ma proteso o finalizzato a rappresentare le idealità dell’eroismo nel controverso contesto storico dell’epopea napoleonica.

L’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, diretta da Semyon Bychkov, s’è cimentata, pertanto, con il “Concerto n. 5” in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 73 “Imperatore” e con la “Sinfonia n. 3” in mi bemolle maggiore op. 55 “Eroica”. Cosa potrebbe accomunare i due capolavori, oltre la medesima tonalità? Forse il senso del grandioso, la declamazione stentorea, il titanismo stravolgente le forme, oppure la sottesa idea di raffigurare gli accadimenti in veste musicale?
È difficile l’interpretazione “a posteriori” degli elementi basilari dell’ispirazione, se è (o era) un’irripetibile genialità a concepirli: di là dall’aneddotica o da fantasiose ricostruzioni, le due composizioni si spiegano e si commentano senza aggettivazioni o attribuzioni di natura storico-letteraria, solamente sfogliando e scorrendo le partiture o semplicemente ascoltandone l’esecuzione.
S’avverte subito, già nell’attacco del primo movimento del “Quinto Concerto” (“Allegro”), composto fra il 1809 e il 1810, che le iniziali sequenze ornamentali di scale, trilli e arpeggi del pianoforte mostrano o preludono ad una diversità formale che sancisce l’evoluzione genere: è il naturale transito di tale forma, appunto, dalla logica del classicismo alle dilatazioni dialettiche ed espressive del romanticismo tardo, poiché gli intensi tematismi susseguenti risultano forieri di ampia dialogicità fra la massa orchestrale e lo strumento solista ma in una contrastante dicotomia di toni e di enunciazioni. Ugualmente, nel secondo tempo (“Adagio un poco mosso”), alla tenue coralità degli archi si giustappone una sentimentale melodicità pianistica, che forse attenua i similari contrasti dell’analogo e celebrato “Larghetto” del “Quarto Concerto”, ma che assume già – o precorre – i caratteri distintivi dell’intimismo brahmsiano. Genialmente, tuttavia, nelle ultime due battute Beethoven “anticipa” o preannuncia l’idea motivica del “Rondò” finale (“Allegro”), pur se poi la ritmicità di un tema danzante s’impone e si evolve nel prosieguo con slanci e arditezze modulative inesauste.
Grandiosità e solennità s’avvertono, quindi, solo a tratti nel “Concerto”, non tali da giustificarne l’appellativo o l’improvvida denotazione “imperiale”, forse frutto della fervida immaginazione o dell’abilità commerciale dell’editore-pianista Johann Baptist Cramer: se n’è, invece, ascoltata una limpida e lineare esecuzione, da parte dell’ancor giovane pianista russo (ma di formazione statunitense) Kirill Gerstein, al suo debutto ceciliano, «riconosciuto – secondo dati biografici – per la sua tecnica prodigiosa». L’interprete non ha certamente enfatizzato quei toni o quei contenuti che in altre esecuzioni tendono a solennizzare “eroicamente” i passaggi più impervi della scrittura beethoveniana, operando – in piena sintonia con il direttore – una coraggiosa scelta di campo, tesa a restituire autenticità alla struttura compositiva dell’opera, senza stravolgimenti o cedimenti al gusto corrente, sovente rispondenti o corrispondenti alle aspettative del pubblico. Tuttavia, i numerosissimi astanti hanno ampiamente condiviso tale opzione, tributando convinte e prolungate ovazioni al solista e al direttore.

Certamente, non è agevole interpretare Beethoven filologicamente, ossia analizzarne compiutamente o criticamente le partiture e ovviare all’enfasi declamatoria o tralasciare di evidenziare componenti di natura extramusicale: così è avvenuto per la susseguente esecuzione della “Terza Sinfonia”, anch’essa restituita da Semyon Bychkov alla sua originaria concezione creativa.
È noto che quando Beethoven si accinse alla composizione di tale sinfonia, la figura di Napoleone, al quale il lavoro doveva essere dedicato – anche dietro le pressanti insistenze del generale Bernadotte, ambasciatore in quel tempo presso la corte di Vienna – era in certo qual senso idealizzata, incarnando e rappresentando sia lo spirito razionalistico dell’Illuminismo sia l’aspirazione dei popoli a liberarsi della tirannide. In tale contesto l’opera venne concepita gradatamente, attraverso un lento processo di maturazione; la stesura definitiva avvenne fra l’estate del 1803 e la primavera del 1804, nella quiete campestre del villaggio di Débling, nei pressi di Vienna, ma il Nostro lacerò violentemente e rabbiosamente il frontespizio della partitura (intitolata, appunto, “Bonaparte”), allorché apprese dall’amico Ferdinand Ries che Napoleone si era fatto proclamare imperatore. La “Sinfonia” assunse semplicemente la denominazione di “Eroica”, senza alcuna dedica ma «composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo», pur se i contenuti programmatici restavano fortemente legati ai princìpi ispirativi e, allo stesso tempo, testimoniavano di un’intima concezione idealistica, tesa ad interpretare i grandi eventi dell’epoca, attraverso l’acquisizione razionale di una supposta o ipotetica simbologia dei quattro elementi della tradizione filosofica. In tale ottica l’intero affresco sembrerebbe interpretare i tratti dell’evoluzione umana nella logica delle antiche ritualità: il primo movimento, nella sua grande spazialità temporale, potrebbe simboleggiare l’aria, lo spirito vitale del mondo; il secondo, la celebre Marcia funebre, con i suoi richiami alla caducità e al senso immanente del passaggio, rappresenterebbe la terra, mentre il limpido fluire del tempo si avvertirebbe nel terzo, caratterizzato dall’incalzante ritmo ternario, nell’evidente simbologia dell’acqua. L’ultimo elemento mancante, il fuoco, sarebbe presente nel quarto movimento, frutto dell’intenzionale autocitazione, operata dallo stesso Beethoven, attraverso il tema delle “Creature di Prometeo”.

Nel primo movimento, l’“Allegro con brio”, il tema principale, nella sua scarna semplicità, riassume in pratica la triade perfetta dell’accordo di mi bemolle maggiore. Non è un caso che tale tematismo sia presente in un Singspiel giovanile di Mozart, “Bastiano e Bastiana”: ma in Beethoven il senso della forza e della potenza trova il modo di esaltarsi e di amplificarsi. Infatti, il bitematismo tipico della forma-sonata è solo apparente: in realtà, dal tema principale si generano sviluppi tematici continui, sovente definiti ampiamente e non stemperati dalle frequenti code, che ne costituiscono il naturale corollario. È come se il suo genio avesse edificato una piramide, dal cui vertice discendesse la storia umana, allargando lo spazio delle sue conoscenze fino alla base, alle fondamenta dell’esistenza medesima. A tale base non s’incontra che la terra, il secondo movimento, l’“Adagio assai”: è ugualmente ravvisabile un netto bitematismo, ma con maggiore distinzione di ruoli. Il senso del passaggio si avverte soprattutto nel ritmo sotteso di corteo funebre, anche se un successivo e grandioso fugato centrale sembra sovvertire proprio gli intenti descrittivi, come se un più grande evento tragico si volesse evocare: l’ineluttabilità del ritorno alla polvere iniziale. Così l’eroismo o, meglio, il furore eroico si trasformano in semplice e meditata umanità: le aspre combinazioni di accordi, le stridenti dissonanze di seconda, gli accordi medesimi di settima diminuita e di quinta e sesta eccedente indicano e segnano la difficoltà dell’esistere.

Ma dal dolore nasce la speranza, dalla sofferenza il coraggio, dalla stasi la forza e l’energia: così si genera e si origina il terzo movimento, l’“Allegro vivace”. Lo “Scherzo”, dopo le intense evocazioni precedenti, può apparire meno espressivo, quasi una rapida transizione verso il “Finale”: invece la sua instabilità armonica – solo alla centonovantasettesima battuta il tema viene esposto nel tono di mi bemolle maggiore – testimonia di una meditata ricerca timbrica, che si esplica nel dialogo serrato fra i fiati e gli archi, e di un progressivo affermarsi del senso della gioia, pur nei richiami eroici, che i corni evidenziano nel “Trio”; del resto, la ripresa dello “Scherzo”, lungi dall’essere una semplice ripetizione, contiene elementi significativi e certamente innovativi, come il riecheggiare del tematismo dei corni, l’episodio “alla breve” e la singolare “Coda”, nella quale il pianissimo dei timpani prelude, attraverso il crescendo, all’esplosione del “Finale”. Come non avvertirvi il senso della vita che rinasce, che si condensa e si evolve dalla materia che è all’origine di tutte le forme vitali, da quel liquido che ha cullato tutti gli embrioni delle specie viventi? Se la vita rinasce, se le energie riaffiorano per sostenerla, è l’umanità stessa che affronta la prova finale, la sua definitiva purificazione, attraverso l’esposizione all’elemento basilare che cauterizza le ferite e le piaghe più profonde, quel fuoco simboleggiato da Prometeo.

Ed ecco il miracolo del quarto movimento, l’“Allegro molto”. Lo schema è quello del tema con variazioni, ma quanta distanza da similari elaborazioni! Dopo il vorticoso inizio, quel tema, appena accennato, si esalta nella limpidezza della prima variazione e nella metrica a terzine della seconda, entrambe affidate agli archi, che sembrano generarsi con magica naturalezza. Ma già la terza variazione tende a stravolgere i contenuti tematici, affidandosi alla timbricità dei fiati sul tessuto di semicrome degli archi, mentre il fugato che caratterizza la quarta, avvalendosi della forma originaria del tema, serve quasi d’introduzione alla quinta variazione, una sorta di marcia tragica. La polivalenza preparatoria è presente anche nell’episodio assunto come sesta variazione: la plasticità melodica si spiana nei modi maggiore e minore del do, quasi in un momento d’idillica riflessione, che non può non sfociare nel “Poco Andante”. La reale e trasparente bellezza di tale episodio è forse sconcertante, perché non è facile ravvisarvi le tensioni emotive precedenti, se non il richiamo soffuso, ma di tragica presenza, delle frasi della “marcia funebre”. È soltanto un attimo del ricordo, anche se di infinita ampiezza: il “Presto” conclusivo irrompe quasi con violenza, o con gioia liberatoria, nel vorticoso dilagare del moto continuo degli archi e dei legni. Il tema si affranca e si libera da ogni ulteriore condizionamento e la Luce viene, in tal modo, definitivamente raggiunta e conquistata.

Di quanto (forse) prolissamente descritto, s’è potuto intendere l’estrema coerenza e chiarezza esecutiva, sempre evidenziata in ogni settore dalla magnifica compagine ceciliana, e l’interpretazione di Bychkov ha reso con logica e coerenza i veri e autentici contenuti del linguaggio e della poetica beethoveniane, senza indulgere in una eroicità di maniera o cedere a ben accette (in genere) enfatizzazioni. È apparso, comunque, a giudicare dai prolungati applausi del pubblico, che il messaggio e la proposizione esegetica siano stati ampiamente recepiti.