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Riforme, Renzi sfida le minoranze interne: “Li fregherò tutti, uno a uno, su questo non c’è dubbio”

Riforme, Renzi sfida le minoranze interne: “Li fregherò tutti, uno a uno, su questo non c’è dubbio”

Lo schema non è nuovo. Matteo Renzi lo ha applicato già in altre occasioni. In direzione, lunedì prossimo, non farà nessuno sconto alle minoranze interne. «Li fregherò tutti, uno a uno, su questo non c’è dubbio».
E su questo punto gli dà atto anche un oppositore fermo ma onesto come Nico Stumpo che ha sempre parlato pane al pane e vino al vino: «Sapete come andrà a finire nella riunione del 29? Perderemo 15 a 85. Le percentuali saranno queste».
Sarà poi a palazzo Madama, come è avvenuto per la riforma del Senato, che il presidente del Consiglio potrà fare delle concessioni. Concessioni che tutti, o quasi, nelle minoranze si augurano perché i più realisti non hanno voglia di andare alla guerra. Tant’è vero che Vannino Chiti vede già degli spiragli all’orizzonte: «I renziani al Senato potrebbero fare delle aperture», dice. E, del resto, la parte più responsabile della minoranza ha già modificato la sua proposta portando da tre a quattro anni il periodo in cui i neo assunti possono essere licenziati senza problema.
Gli oppositori del segretario sanno anche che quella del referendum è un’arma spuntata. «Siamo seri – spiegava l’altro giorno Cesare Damiano – fare un’iniziativa del genere è difficilissimo se non impossibile».
Insomma, le minoranze hanno i loro bei problemi a condurre questa battaglia che vede la stessa Cgil non presentarsi come un monolite allo scontro con Renzi. E non è un caso infatti che non siano stati gli oppositori interni del segretario del Partito democratico a cercare la polemica e il confronto duro con il leader. Anzi. Raccontava Damiano: «Noi stavamo trovando un’intesa con il ministro Giuliano Poletti, il vicesegretario Lorenzo Guerrini e il responsabile economico Filippo Taddei. Eravamo praticamente a un millimetro dall’accordo quando Matteo ha fatto saltare tutto. È stato lui a volere questa prova di forza».
Già, perché questo è l’unico modo che il presidente del Consiglio ha per dimostrare che fa sul serio, che il Jobs act è una riforma vera e non un classico pannicello caldo all’italiana. «Io – è il leit motiv del premier – non mi fermo di fronte a nulla. Anzi andrò avanti con maggiore forza e determinazione più sentirò che ci sono resistenze delle frange conservatrici della sinistra».
L’inquilino di Palazzo Chigi prende in giro l’accolita dei «perdenti», quelli che «preferiscono tenersi il 25 per cento e non governare mai». Lo fa perché è convinto che, alla fine, la maggior parte degli esponenti della minoranza (gli Amendola o i Martina) lo seguirà e che gli altri in un modo o nell’altro deporranno le armi. Sì, anche gli altri, perché, come spiega con una punta d’ironia il renziano Roberto Giachetti, vice presidente della Camera: «Alla fine non andranno avanti perché hanno paura del voto». Però le parole pronunciate ieri da Nico Stumpo sembrerebbero dimostrare il contrario. «Anche se perderemo in direzione, in Parlamento voteremo i nostri emendamenti, pure se avranno il parere sfavorevole del governo».
Renzi sostiene il contrario, dice che dopo il voto della direzione ci si dovrà adeguare alle decisioni prese «perché in un partito vige il principio della maggioranza». Però da questo orecchio una fetta, per quanto minoritaria, degli oppositori interni di Renzi non ci vuole sentire. Sono pochi, certo. E la maggior parte cerca invece a tutti i costi l’accordo con il segretario. Ma al Senato i numeri sono quelli che sono e bastano poche defezioni per creare dei problemi al governo. Potrebbe essere tattica. In vista della trattativa che si aprirà dopo il voto della Direzione di lunedì prossimo.
Ma se così non fosse? Ieri nel Transatlantico di Montecitorio come nei corridoi di palazzo Madama, si tornava a parlare della possibilità della nascita di un governo tecnico teleguidato dalla Bce e dalla Germania. E qualcuno accusava gli esponenti della minoranza del Partito democratico di fare da testa d’ariete di questa operazione. «Io testa d’ariete di una cosa del genere, ma come vi permettete?», si indignava Stumpo. Mentre, con la calma olimpica che lo contraddistingue Gianni Cuperlo tagliava corto con queste parole: «Far cadere il governo Renzi sarebbe da irresponsabili». E il renziano Paolo Gentiloni chiudeva la questione con un sorriso: «Mi sa tanto che c’è chi non conosce ancora Matteo: quello non lo frega nessuno, con buona pace di quanti lo vorrebbero fare proprio in questi giorni».