All’Accademia di Santa Cecilia Pappano interpreta Rachmaninov e Sibelius

All’Accademia di Santa Cecilia Pappano interpreta Rachmaninov e Sibelius
Di Sergio Prodigo.

Sabato 21 marzo (con repliche il 23 e il 24 e “in trasferta” il 22 al “Lingotto” torinese) al Parco della Musica l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il suo direttore, Sir Antonio Pappano (con la partecipazione del giovane pianista ucraino Alexander Romanovsky), hanno interpretato il particolare antistoricismo del primo Novecento, nella sua accezione post-romantica e nell’avulsa binomia Rachmaninov-Sibelius (il poema sinfonico “L’isola dei morti” e il “Concerto n. 1” per pianoforte e orchestra del compositore russo e la “Sinfonia n. 2” del compositore finnico).
La non adesione alla coeva evoluzione del linguaggio musicale, altrimenti espressa dall’antinomia adorniana Schönberg-Stravinskij, si palesa nel pervicace conformismo tonale e nella conseguente adozione di stilemi classici dei due citati autori, coerentemente perseguiti nella lunga parabola delle rispettive produzioni sinfoniche, pur nella obiettiva dicotomia delle difformi concezioni estetiche.
Certamente su Rachmaninov graverebbe quel pesante giudizio critico che ten-deva a etichettarlo come «l’ultimo dei compositori romantici o il più radicale dei reazionari in musica» (letterale citazione dalla Prefazione al pregevole volume su Rachmaninov, scritto da Maurizio Carnelli nel 1990 e pubblicato dalla Targa Ita-liana di Milano), eppure l’approfondimento di taluni aspetti del suo linguaggio armonico, meno scontato e certamente più complesso di quanto si manifesti al primo approccio o alla facile assimilazione dell’ascolto immediato, potrebbe lambire e scalfire la scorza della convenzionalità e degli stereotipi impersonali. Se si considera proprio il lavoro eseguito in apertura di concerto, “Die Toteninsel” (ossia “L’isola dei morti”), composto nel 1908 e ispirato all’omonimo dipinto di Böcklin, di là dal condizionamento espressivo connesso al descrittivismo pittorico, appare quasi agevole rilevare come proprio l’ossatura armonica e l’ampio di-spiegamento motivico assecondino la rappresentazione, sempre interconnessa agli intenti compositivi del genere lisztiano, ma i materiali in uso non disdegnano ogni sorta di arditezze accordali e di funambolismi strumentali. La stessa citazione del “Dies irae”, prevedibile in tale contesto evocativo e ricorrente anche in altre sue opere, sia sinfoniche (nella “Sinfonia n. 1”, nelle “Danze Sinfoniche” e nella “Rapsodia su un tema di Paganini”) sia pianistiche (nell’“Études–Tableaux”), si innesta (nella parte finale del poema) in un coacervo timbrico che dissemina l’inciso su vari livelli di emissione e di espressione, travalicando i limiti delle stesse e analoghe reminiscenze o riecheggiamenti berlioziani e lisztiani.
La complessa struttura orchestrale del poema e, di concerto, i suoi contenuti ne rendono oltremodo difficoltosa l’esecuzione e la particolare interpretazione rappresentativa: quando Pappano guida la sua orchestra ogni possibile problematica connessa si annulla quasi per magia e quel che consegue si concreta in un irripetibile atto performativo. Ogni altra aggettivazione a postilla apparirebbe superflua oppure non atta a descrivere l’impatto emotivo riversato su un pubblico entusiasta e plaudente e in trepida attesa per il susseguente brano per pianoforte e orchestra: attesa ampiamente ripagata da una eccellente performance di Alexander Romanovsky, che ha superbamente interpretato la difficile pagina rachmaninoviana, palesando indubbie doti virtuosistiche ma anche una profonda espressività espositiva.
Tra l’altro, il “Concerto n. 1” in fa diesis minore op. 1 non gode della popolarità del secondo e del terzo (forse meno del quarto) concerto, che Rachmaninov dedicò (nella dicotomica veste di pianista-compositore) al genere specifico, anche perché non si ravvisano tematismi magniloquenti o, quantomeno, di imperitura impressione nell’immaginario collettivo o nella musicale reminiscenza dei cultori. In effetti, l’opera presenta elementi di indubbia contraddittorietà: composta – almeno nella prima fase elaborativa – negli anni giovanili (nel 1981), venne “rivisitata” e rielaborata dopo oltre vent’anni; si rinvengono, pertanto altre tracce e altri processi creativi, riconducibili ai due citati “Concerti” (il celeberrimo in do minore op. 18 e il “mastodontico” in re minore op. 30, risalenti rispettivamente al 1901 e al 1909) e ravvisabili almeno nella riorganizzazione del materiale dei tre movimenti (“Vivace. Moderato espressivo”, “”Andante” e “Allegro vivace. Andante ma non troppo”) e nella ricercatezza dell’orchestrazione. Naturalmente prevale la componente virtuosistica, a tratti preponderante sulla dialettica motivica, ma la sapienza della revisione conferisce infine unitarietà al contesto strutturale, rendendone nel contempo complessa la coerenza espositiva: è quel che il giovane Romanovsky ha saputo conferire al brano, rendendolo appunto coerente con la sua controversa genesi, ma pur sempre coadiuvato dalla lucida analisi che Pappano ha operato sulla partitura, esplicitandone e chiarificandone ogni più recondita particolarità; conseguentemente, grande l’entusiasmo del pubblico per tutti gli interpreti e prolungate ovazioni per il solista.
Nella seconda parte del concerto la “Sinfonia n. 2” in re maggiore op. 43 di Jean Sibelius: a commento di una precedente manifestazione si era evidenziato fortemente il carattere in certo qual modo isolazionista della produzione musicale del compositore finnico. Allora si illustrava e si chiosava l’intenso “Concerto” in re minore per violino e orchestra, composto nel 1903, ora si discetta di un poderoso e ponderoso lavoro sinfonico: scritto solo due anni prima ma nel medesimo periodo di laboriosa creatività che precedette la sua svolta neoclassica (ossia una impercettibile devianza da stilemi marcatamente tardoromantici, senza che il No-stro addivenisse nel corso della sua lunga esistenza a condividere le acquisizioni di altre e variegate estetiche e lessicalizzazioni musicali), i suoi quattro movimenti (“Allegretto”, “Tempo andante ma rubato”, “Vivacissimo” e “Finale: Allegro moderato”) si collocano essenzialmente nell’ambito dei tradizionali paradigmi formali – a parte, forse, la maggiore complessità strutturale del primo –, tuttavia sembra ravvisarsi, specie nel tematismo, una ricerca inventiva mirata alla gradevolezza e alla chiarezza enunciativa. Tali elementi, ancor più marcati nel terzo e quarto movimento, conferiscono all’opera una generale liricità, forsanche legata ad una “mediterranea” ispirazione (il lavoro venne scritto durante un lungo soggiorno a Rapallo), pur sempre sorretta da una sapiente e laboriosa strumentazione e da una raffinata organizzazione delle strutture fraseologiche.
Un sinfonismo di tal genere si rivela sempre benaccetto agli astanti, in particolare all’attento ed entusiasta pubblico ceciliano, soprattutto se un’orchestra, come quella dell’Accademia, esprime sempre la sua massima valentia in virtù della concertazione e della direzione di Antonio Pappano: si dovrebbero usare le reiterate e consuete espressioni elogiative a logico commento, ma, con più aderenza, quanto inteso nell’ennesima altissima performance può esprimersi o formularsi con il desueto termine di “acribia” (ossia, nello specifico contesto, estrema e meticolosa precisione nell’esegetica critico-musicale).