Previdenza, luci e ombre della riforma Fornero: generazioni più vicine ma ci sono troppe rigidità

di Giuliano Cazzola*

Convertito il decreto Salva-Italia emerge con sempre maggiore chiarezza che la riforma delle pensioni ha rappresentato il biglietto da visita del Governo Monti ai mercati nternazionali, sempre disposti a dare credibilità alle manovre di risanamento dei conti pubblici solo se contengono misure di riordino dei sistemi di welfare, ritenuti, non a torto, la malattia cronica delle economie europee ed occidentali. La riforma Fornero, oltre ad estendere il metodo contributivo a tutti i lavoratori con il criterio del pro rata (ovvero limitatamente agli anni dal 2012 in poi), suona il de profundis per la vera della previdenza all’italiana: quel pensionamento di anzianità – residuo di un passato strenuamente difeso – che, proprio quando l’aspettativa di vita raggiungeva livelli impensabili solo alcuni decenni or sono, ha consentito ad oltre quattro milioni di italiani di attraversare il traguardo della quiescenza da cinquantenni o poco più, ponendo a carico delle giovani generazioni il finanziamento dei loro assegni per almeno un quarto di secolo. Rimangono, però, nell’articolo 24 della legge alcuni profili di rigore eccessivo. Nei prossimi due anni, le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo (ovvero a circa 1400 euro mensili lordi) non riceveranno i previsti adeguamenti all’inflazione.

Trattamenti di anzianità
La ratio della norma è dettata solo da robuste esigenze di cassa. C’è un altro profilo della manovra eccessivamente severo: l’abolizione del sistema delle quote e dell’età minima per i trattamenti di anzianità (di cui è soppresso persino il nome). In sede di conversione, alcuni effetti più crudeli sono stati ritoccati. Si pensi al caso di un lavoratore dipendente, di 59 anni con 35 anni di contributi, che aspettasse il 2012 per poter andare in quiescenza facendo valere quota 96 (60 anni di età + 36 di versamenti): avrebbe maturato il diritto a pensione salvo poterlo esercitare un anno dopo per effetto della c.d. finestra. Con le nuove disposizioni, prima dei correttivi, gli venivano richiesti 62 anni di età e 42 anni e un mese di versamenti. Sarebbe stato costretto, in pratica, a lavorare 5-6 anni in più. Con le modifiche introdotte, in sede di conversione del decreto alla Camera, sono previste talune salvaguardie (non troppo generose) per coloro che maturano i requisiti previgenti entro il 2012. Si tratta, come hanno scritto i giornali, dei nati nel 1952 per i quali, se uomini, viene mantenuta, a 64 anni, una specie di pensione di anzianità; di vecchiaia se donne. Sulle macerie dell’anzianità, è sopravvissuto, sia pure sottoposto a penalità, il percorso del pensionamento indipendente dall’età (il vero buco del sistema), mentre è stato soppresso il canale delle quote + età minima. Sarebbe stato più equo e rigoroso operare in senso contrario, magari alzando gradualmente l’età minima prescritta, oltre quota 97 con almeno 61 anni, nel 2013. Il problema vero del sistema non è quello dei contributi versati per poter accedere alla pensione, ma quello dell’età in cui ci si ritira dal lavoro. Meglio prevedere, allora, nel sistema delle quote, un innalzamento graduale del requisito anagrafico richiesto (anche assorbendo l’anno di finestra).

Opting out, ovvero forme di gradualità nell’accesso al metodo contributivo
Il canale del pensionamento con il solo requisito contributivo sarebbe potuto restare – come modificato dal decreto e inglobando la finestra – a 41-42 anni, subendo una penalizzazione economica ragguagliata agli anni mancanti rispetto a quelli previsti, di volta in volta, nell’altro canale. Un altro aspetto merita un commento, anche se è stato notato solo dai commentatori più attenti. La novità è inserita in una norma programmatica, il comma 28, che affida ad una Commissione di esperti incaricata di proporre, entro il 2012, possibili ulteriori forme di gradualità nell’accesso al trattamento pensionistico con il metodo contributivo. L’ultimo periodo del comma stabilisce che, entro il termine suddetto, saranno analizzate. E’ questa un’altra idea che la professoressa Elsa Fornero ha consegnato al ministro Elsa Fornero. Sul piano tecnico il procedimento è definito di opting out . Elsa Fornero pubblicò persino un importante saggio su questo argomento corredato di una proposta compiuta (lo storno di una quota fino all’8% dell’aliquota contributiva), insieme al suo maestro Onorato Castellino, il primo studioso che lanciò l’allarme pensioni alcuni decenni or sono. Si tratta di consentire ad un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del tfr per aderire ad un fondo), di destinare al finanziamento di una forma di previdenza complementare una parte della sua contribuzione obbligatoria. Potrebbe in questo modo, se lo riterrà, distribuire il proprio rischio previdenziale su di una quota pubblica a ripartizione ed una privata a capitalizzazione, senza dover sostenere maggiori oneri (l’esperienza pratica dimostra che i giovani non si accostano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenuti a versare alle gestioni obbligatorie). Mediante le soluzioni di opting out si otterrebbe certamente una copertura pubblica inferiore, ma sarebbe possibile ottenere rendimenti più generosi sui mercati. L’operazione non è semplice e contiene qualche rischio, tanto che la norma prevede un concerto con gli enti gestori di previdenza obbligatoria e con le autorità di vigilanza operanti nel settore della previdenza.
*vice presidente della Commissione Lavoro della Camera