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Da operaio a Senatùr, 23 anni da capo tra una canottiera e un dito medio

(Di Gianpaolo Santoro). L’uscita di scena di Umberto Bossi, è la fine di un’epoca. Prima Berlusconi, poi lui: i due uomini che hanno tenuto in mano l’Italia nel terzo millennio hanno fatto due passi indietro. Mai nulla sarà più come prima. In pochi mesi lasciano le scene due padri-padroni della politica italiana, due leader che hanno fondato dal nulla un partito e che hanno incarnato il sogno italiano di buona parte del Paese, quella che vota centrodestra.
Eppure il primo Bossi aveva militato nel gruppo comunista de “il Manifesto” e nel Partito di Unità Proletaria per il comunismo. Ma poi un giorno, a 38 anni, entrando nella facoltà di Medicina a Pavia notò un avviso dell’Unione Valdotaine, movimento autonomista della Val D’Aosta. Il successivo incontro con il leader movimento dell’Uv, Bruno Salvadori, fu la folgorazione, gli cambiò la vita. Assimilò teorie come l’autodeterminazione dei popoli (le cosiddette nazioni senza Stato), il valore di appartenenza ad un popolo tramite criteri culturali e non di sangue, e quello di processi come l’unificazione dei movimenti regionalisti, indipendentisti e federalisti.
Umberto da Giussano Dopo 23 anni di regno incontrastato Bossi lascia. ”Chi sbaglia paga, qualsiasi nome porti…” ha detto il profeta del Nord andando via. Questo è un ricordo lontano del padre del federalismo e del dito medio all’inno di Mameli, l’uomo della Padania e della pernacchia agli avversari politici, l’uomo del giuramento di Pontida e della canottiera a Porto Cervo, di questo moderno Alberto da Giussano sempre pronto a mille battaglie di Legnano, quella che vide i comuni padani riuniti intorno al Carroccio sconfiggere l’imperatore Federico Barbarossa.
Un salto indietro Quando ho incontrato la prima volta Bossi era un semisconosciuto. Era stato eletto Senatore, ma dietro di lui c’era il vuoto. Con una sorta di colletta, un paio di anni prima, aveva firmato davanti ad un notaio di Varese l’atto di fondazione della Lega lombarda. Insieme a lui c’erano, quella che allora era solo la sua compagna (che poi sposerà) Manuela Marrone, Giuseppe Leoni, Marino Moroni, Dino Daverio e Sergio Sogliaghi. I carbonari del nord.
La sua elezione era stata una sorta di sorpresa. Umberto Bossi si era candidato altre due volte in precedenza. Una prima volta alle politiche del 1983 (nella circoscrizione Varese-Como-Sondrio) insieme ad altri autonomisti sotto il simbolo della Lista per Trieste. Ottenne 157 preferenze. Non gli andò certo meglio l’anno dopo quando con la neonata Lega Lombarda partecipa alle europee, insieme alla Liga Veneta, il Partito del Popolo Trentino Tirolese ed il Moviment d’Arnàssita Piemontèisa e racimola 1630 preferenze. In poche parole tutt’altro che un trascinatore.
Uno,cento,mille Un collega che mi aveva fatto da tramite per l’appuntamento me lo descrisse come un personaggio imprevedibile ma, soprattutto, “matto come un cavallo”. E come dargli torto? Nella sua prima vita, ogni giorno usciva da casa di buon’ora con la sua valigetta da medico per andare a lavorare all’ospedale Dal Ponte di Varese. Almeno era quello che sapeva Gigliola Guidali, la commessa di Gallarate, che aveva da poco sposato. Ma l’Umberto non si era mai laureato in medicina, anche se aveva fatto una festa di laurea di quelle di una volta, invitando amici e parenti. E al Dal Ponte, non sapevano neanche chi fosse. La storia andò avanti per mesi, poi quando si venne a sapere la verità, arrivò il divorzio.
Sconforto & Malpensa E che dire di quando si faceva chiamare Donato ed insieme al suo complesso si presentò al festival di Castrocaro, dove giunse sino alla semifinale, ma poi venne bocciato perché “troppo triste”. Aznavour al confronto era un rockettaro. Cantava musica americana degli anni 30, pianoforte e voce, un boogie woogie in chiave padana. Incise anche disco, un quarantacinque giri che si chiamava “Sconforto”. Insomma un’allegria, difficile davvero dare torto alla giuria di Castrocaro.
E del Bossi poeta, che dire? Scriveva in dialetto, una sua poesia “Scioperu in dur Baset” (sciopero alla Bassetti) venne anche pubblicata su una rivista politica-culturale varesina “Ul Burtavèll”. Circuito molto limitato. Ma probabilmente la sua poesia più famosa era “Canzon pa ra Malpensa”, l’inno ad uno spicchio di terra vicino a casa sua. “Sacar hinn i boch. E i praa. E ra nostra acqua. E or vent. E ra fioca. Sacar hinn i radis.”
Dieci anni avanti Magro come un giunco, Ray-Ban a goccia, non stava fermo un attimo. Ci incontrammo in un albergo del centro, la sede di via Bellerio ancora non esisteva. Sino a qualche mese prima le riunioni della Lega si tenevano nel monolocale della sua compagna. Parlammo per circa un’ora e mi espose il suo progetto. Se non era pazzo, questo sembrava. Raccontava del popolo del Nord, delle gabbie salariali, di tre Italie, quelle che racconterà poi il professor Miglio nell’” Asino di Buridano”, quella del Nord che coincideva con la Padania (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna); quella del Centro (Marche, Umbria, Lazio e Toscana) e quella del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria). Descriveva un’Italia al capolinea, la fine dei partiti e di un sistema politico bloccato, in pratica la fine della prima Repubblica, eppure Tangentopoli era lontana anni luce. Parlava al giornalista venuto dal Sud e gli brillavano gli occhi, ma era una scintilla vitale. Era un generale senza esercito ma voleva affacciarsi alla ribalta nazionale col piglio di un leader. Già allora il cielodurismo era nell’aria. E se tutti sorridevano quando l’ascoltavano non aveva importanza. L’importante era far sentire la sua voce, proprio come quando con la cinquecento grigio topo di Maroni andava ad imbrattare le mura di Milano con gli slogan della Lega. Poi tutti sappiamo come è andata a finire…