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Orchestra Accademia S.Cecilia, concerto per il nuovo anno con le note di Strauss all’insegna della “leggerezza”

Orchestra Accademia S.Cecilia, concerto per il nuovo anno con le note di Strauss all’insegna della “leggerezza”

(di Sergio Prodigo). Il Concerto per il Nuovo Anno dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia avrebbe avuto come protagonisti Georges Prêtre e la “Danza”: il celebre direttore francese avrebbe interpretato un variegato programma solo in parte “ispirato” alla tradizione viennese dei “concerti di Capodanno”. Avremmo inteso, infatti, soltanto l’Ouverture da Die Fledermaus e il Kaiser-Walzer di Johann Strauss, ma sarebbero stati eseguiti – nello spirito dei diversi intenti rappresentativi – la Suite dal Rosenkavalier di Richard Strauss, l’Invito alla danza di Weber (nella trascrizione di Berlioz), la Danza delle ore (dalla Gioconda) di Ponchielli, Quattro Danze ungheresi di Brahms e due brani di Jacques Offenbach (la Barcarola da Les Contes di Hoffmann e il Cancan da Orphée aux Enfers).

Purtroppo, motivi di salute hanno impedito al maestro Prêtre di dirigere l’evento del 5 gennaio all’Auditorium del Parco della Musica e, pertanto, altra programmazione e altri interpreti, il direttore austriaco Manfred Honek e il soprano Sumi Jo: medesimo, tuttavia, il carattere celebrativo e augurale, certamente più conforme alla rammentata scia dei tradizionali concerti viennesi. Invero, a parte tre brani, il Valzer dei fiori (dal balletto Lo Schiaccianoci) di Čajkovskij, la sola Danza ungherese n. 5 di Brahms e la citata Ouverture da Die Fledermaus (già presenti nell’originaria programmazione), gran parte del concerto è stata dedicata proprio a musiche straussiane: l’Ouverture da Der Zigeunerbaron, i valzer Rosen aus dem Suden op. 388 e Wiener Blut op. 354, le brillanti ed “eclatanti” polke Furioso-Polka op. 260, Auf der Jagd op. 373, Im Krapfenwald’l op. 336 e Unter Donner und Blitz op. 324 e l’aria Spiel’ ich die Unschuld vom Lande (da Die Fledermaus); in programma anche due celebri arie di Franz Lehár, Meine Lippen, die küssen so heiss (dall’operetta Giuditta) e Vilja lied (da Die lustige Witwe), la delicata Polka mazurka “Die Libelle” op. 204 di Joseph Strauss e il celeberrimo Valzer brillante “Un bacio” di Luigi Arditi.

Il tutto all’insegna della “leggerezza”: cosa può intendersi con tale termine in musica se non un’attribuzione limitativa e forse impropria? Accostarvi sinonimi come piacevolezza, gradevolezza, orecchiabilità e levità significa rilevare nella stessa tradizione classica (da Bach a Mozart e a Beethoven, da Schubert a Chopin e a Brahms, da Rossini a Verdi e a Puccini) una lunga sequela di brani improntati ed elaborati su particolari caratteristiche: immediatezza tematica, assenza di sviluppi formali, armonie non ricercate, costanti ritmiche ben definite e mirate peculiarità espressive. È pur vero, tuttavia, che lo stesso tematismo, privato delle componenti passionali e drammatiche, può sovente transitare dal canonico contesto “colto” al parallelo ambito “extracolto”, ossia scendere rovinosamente la china del gusto per poter assumere toni melodiosi e di facile assimilazione, ma non di rado è in grado di diffondere e trasmettere sensazioni di benessere e appagamento estetico.

Così s’intendono i valzer e le polke di Strauss, di là dalle ricorrenze che ne riservano o ne limitano la diffusione a momenti topici e canonici, quasi prestabiliti da diverse disposizioni d’animo per occorrenze ludiche: sono strutture compositive particolari, ordinate e prefissate, che s’avvalgono di solide introduzioni, atte a preannunciarne i temi salienti, d’una sequela costante di idee e spunti reiterati, alcuni di forte impatto espressivo, altri solo di complemento, e d’una caudalità a tratti riepilogativa, ma protesa verso il finale vorticoso e travolgente.

Certamente una maggiore complessità si rinviene nelle Ouvertures per le operette Der Zigeunerbaron (“Lo zingaro barone”, composta nel 1885) e Die Fledermaus (“Il pipistrello”, rappresentata nel 1874), eseguite all’inizio delle due parti del concerto. Nella prima l’apparato melodico è abilmente connesso ai caratteri tzigani e apparentato al folklore magiaro con costanti accelerazioni nelle ripetizioni motiviche; nella seconda si susseguono incessantemente –  in una larvata forma tripartita – temi di diversa fattura, espressività, contenuto e incisività ritmica, quasi una sorta di caleidoscopico assemblaggio degli stessi tematismi presenti nell’opera.

È noto come nel primo Novecento i fasti dell’operetta straussiana fossero stati rinverditi dalla vena fin troppo prolifica di Franz Lehár: logica, consequenziale e pienamente in sintonia con il contesto programmatico è apparsa, pertanto, la proposizione delle due arie citate in precedenza, tratte dalla Giuditta, composta nel 1934, e da Die lustige Witwe (ossia La vedova allegra, la più nota delle operette del compositore austriaco, ma d’origine ungherese, scritta nel 1905), pur difformi nei contenuti musicali o nella sembianza di un mutamento stilistico e straordinariamente interpretate da Sumi Jo. Il timbro cristallino del soprano sudcoreano, la sua tecnica vocale eccelsa e una intensità sonora non potente ma echeggiante hanno conferito la giusta dimensione espressiva alla semplicità e alla leggiadria delle linee melodiche; similmente, ma con preziosismi canori più accentuati, s’è manifestata e rivelata l’interpretazione sia della “datata” aria di Arditi, Il bacio, nella sua particolare tipicità di “pezzo di bravura”, sia del virtuosistico brano tratto dal terzo atto dello straussiano Die Fledermaus. Si sono alternati, pertanto, quattro diversi momenti di una teatralità sovente negletta o relegata ai margini della tradizione lirica: fedeli a tali dicotomie e al sotteso spirito rievocativo le stesse esecuzioni, non disgiunte da una sorta di visiva e fascinosa rappresentazione che le quattro cangianti mises, sfoggiate da Sumi Jo, hanno donato al numerosissimo e plaudente pubblico.

Forse in simile e generale ambito i brani di due autori “paludati”, come Brahms e Čajkovskij, ossia la Danza Ungherese n. 5 e il Valzer dei fiori (eseguiti nella prima parte del concerto) potevano apparirne avulsi o quantomeno “estranei” al contorno evocativo, ma sia l’indubbio loro legame alla vitalità materica della danza, sia la connotazione popolare del primo (Brahms attinse i temi delle sue ventuno Danze ungheresi dalla tradizione tzigana) e sia una certa caratterizzazione fin de siècle del secondo (la suite da Lo schiaccianoci risale al 1892) hanno ampiamente “giustificato” la relativa proposizione, non disgiunta dalla superba interpretazione che ne hanno offerto Honek e la compagine orchestrale.

Tuttavia, non va sottaciuta proprio la performance dell’orchestra ceciliana, alle prese con un repertorio forse lontano dagli abituali canoni o dalle sue stesse peculiarità interpretative: l’apparente “disinvoltura” esecutiva o lo spirito del divertissement musicale possono solo mascherare, infatti, ma non celare una reale complessità tecnica a livello strumentale di tutti i brani eseguiti (soprattutto quelli di Johann Strauss), ossia gli ardui e difficoltosi passaggi sovente ai limiti di ostici virtuosismi, gli insidiosi “assolo”, le ampie agilità scalari e gli andamenti ritmici incalzanti. Eppure, in tale coacervo di astruserie non sono mancati quei tipici e topici momenti di giocose manifestazioni o di improvvisazioni extramusicali, come l’aggirarsi in scena del cacciatore o l’inattesa apertura di ombrelli nel corso delle esecuzioni, rispettivamente, delle polke Auf der Jagd! (A caccia!) e Unter Donner und Blitz (Sotto tuoni e lampi), quasi à la manière di opportune reminiscenze dei menzionati e passati concerti (di Capodanno) viennesi.

Un successo straordinario ha, quindi, contrassegnato l’evento del 5 gennaio (replicato nei due giorni successivi), decretato da un pubblico foltissimo che ha avuto modo di esprimersi più volte in entusiastiche ovazioni, anche in virtù della sovrabbondanza dei brani in programma, partecipando infine con i rituali battimani (scanditi a tempo di marcia) al secondo bis straussiano. Il merito va certamente condiviso ed equamente ripartito fra un’orchestra perfetta e sempre all’altezza del suo valore, una mirabile cantante (incantevole anche nel primo bis, con relativo brindisi augurale) e un eccellente direttore, Manfred Honek, raffinato e trascinante interprete d’una inusuale quanto preziosa “offerta musicale”.