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Accademia S.Cecilia, sulle note del “dissacratore” Poulenc per la direzione di Stéphane Denève

Accademia S.Cecilia, sulle note del “dissacratore” Poulenc per la direzione di Stéphane Denève

Di Sergio Prodigo

Un concerto monografico può rivestire sovente significati che travalicano i contenuti musicali medesimi, specie quando – con coraggiose scelte programmatiche – si rivolge alla letteratura del Novecento (pur se si tratta ormai di Novecento storico), ma non illustra solo le opere dei “grandi” (Mahler, Schönberg, Stravinskij, Bartók o Prokofiev): nello specifico, l’evento dello scorso sabato 9 maggio all’Auditorium del Parco della Musica è stato dedicato a Francis Poulenc e all’esecuzione, da parte dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretti da Stéphane Denève, dello “Stabat Mater” e di un lungo estratto dall’opera “Dialogues des Carmélites”.
Generalmente la figura di Poulenc è associata ai contenuti estetici dei “Six”, ossia di quel drappello di musicisti, che si costituì intorno agli anni Venti dello scorso secolo su programmi e intenti per propugnare la semplicità d’espressione, la spontaneità e l’alienazione dagli schemi precostituiti.

Il cosiddetto “Gruppo dei sei” (Louis Durey, Germaine Tailleferre, Georges Auric, Darius Milhaud, Arthur Honegger e, appunto, Francis Poulenc) si ispirava alla dissacrazione e al rifiuto di tutto ciò che artisticamente poteva apparire antiquato e reazionario (romanticismo, wagnerismo e impressionismo), perseguiti già agli inizi del secolo da Erik Satie e codificati da Jean Cocteau nel famoso saggio “Le Coq et l’Harlequin”. Dopo l’entusiasmo della fase iniziale, ciascuno dei compositori imboccò strade diverse e si espresse con linguaggi difformi: emersero, tuttavia, e si affermarono nel panorama musicale solo gli ultimi tre.
L’iniziale produzione di Francis Poulenc (Parigi, 1899 – 1963) si adeguò, invece, agli stilemi ironici e dissacranti del Gruppo (dalla “Rhapsodie Nègre” e i “Mouvements perpetuels” per pianoforte, da “Cocardes” per voce e strumenti e dal balletto “Les Biches”, dal “Concert champêtre” per clavicembalo e orchestra e dal concerto coreografico “Aubade” per pianoforte e 18 strumenti fino all’opera comica “Les mamelles de Tirésias”); in seguito, dopo il secondo dopoguerra, subentrò un atteggiamento più meditato e riflessivo, quasi religioso e la sua scrittura si arricchì di maggiori contenuti espressivi (nell’opera-monologo “La voix humaine”, nel “Gloria” e, appunto, nello “Stabat mater” e nell’opera “Dialogues des Carmélites”).

L’antica sequenza del XIII secolo, attribuita a Jacopone da Todi, venne intesa dal compositore francese come una sorta di ideale “Requiem” o, meglio, di commiato per l’amico Christian Bérard, prematuramente scomparso, «pour confier son âme à Notre-Dame de Rocamadour» (come si legge nella dedica). La frammentazione del testo in dodici sezioni a sé stanti e musicalmente autonome (“Stabat mater dolorosa” – Très calme; “Cujus animam gementem” – Allegro molto, Très violent; “O quam tristis” – Très lent; “Quae moerebat” – Andantino; “Quis est homo” – Allegro molto, Prestissimo; “Vidit suum” – Andante; “Eja mater” – Allegro; “Fac ut ardeat” – Maestoso; “Sancta mater” – Moderato, Allegretto; “Fac ut portem” – Tempo di Sarabanda; “Inflammatus et accensus” – Animé et très rythmé; “Quando corpus” – Très calme) non mina l’unità dell’opera (per soprano, coro misto e orchestra), pur se rare si rivelano le corrispondenze tematiche fra i vari episodi, separati da silenzi o sospensioni del suono minuziosamente indicati in partitura.

Composto fra il 1950 e il 1951 ed eseguito nell’aprile del ’51 al Festival di Strasburgo, lo “Stabat Mater” non cela nella sua struttura una concezione quasi liederistica, pur in un contesto tipologicamente ciclico, né tradisce uno stile compositivo avulso dai linguaggi dell’emergente avanguardia degli anni Cinquanta, ma fortemente conservativo di una tradizione formale ed espressiva di radice sia franckiana sia debussyana. Una latente modalità sembra, tra l’altro, permeare l’espressività delle linee melodiche, tuttavia connesse anche nelle sovrapposizioni corali ad un tonalismo sempre presente e riconoscibile ma sovente turbato da funzionali tensioni armoniche, pur se tutto ciò si stempera e si amalgama nella contestualità sonora di un’abile orchestrazione.
Eccellente l’esecuzione del coro (superlativo per il lavoro preparatorio, sempre egregiamente svolto e curato da Ciro Visco) e dell’orchestra: del tutto convincente e conforme ai contenuti del contesto compositivo è apparsa l’interpretazione del direttore, Stéphane Denève, ma straordinaria si è rivelata la performance del soprano Hélène Guilmette, soprattutto per l’intensa vocalità espressa.
Nella seconda parte del concerto l’esecuzione di sei estratti dai “Dialogues dei Carmélites” (Primo e Quarto quadro dall’Atto I, Interludio e Terzo quadro dall’Atto II, Interludio e Quarto quadro dall’Atto III): l’opera, rappresentata in “prima” alla Scala nel gennaio del 1957 (in versione italiana) e, di seguito, a Parigi (in versione francese) nel giugno dello stesso anno, rievoca la vicenda delle sedici suore (poi beatificate) carmelitane di Compiègne, ghigliottinate nel 1794 durante gli anni del Terrore della Rivoluzione francese. Poulenc elaborò il libretto, basandosi sulla omonima pièce di George Bernanos, ma ancora una volta fu la tragica morte (nel 1936) di un suo amico, Pierre Ferroud (decapitato in un incidente stradale) a costituire, a parte un ritorno alla fede cristiana, la presaga ispirazione per un lavoro alla cui stesura attese per oltre tre anni.

Gli elementi più diversi sembrano fondersi nella complessa partitura, dalla tipica melodicità ereditata dal melodramma francese ottocentesco (Bizet e, soprattutto, Massenet) a limitate reminiscenze wagneriane (un non celato uso del leitmotiv, tuttavia non funzionale), dalla tradizione poliarmonica (politonale e polimodale) dei “Six” al colore orchestrale del “Pelleas” debussyano, senza alcun coinvolgimento o commistione con le concezioni estetiche e i tecnicismi della coeva avanguardia. Ne risulta, pertanto, un affresco musicale che tende a evocare, sovente con forti tinte intrise di drammaticità, una sorta di espressività psicologica dei personaggi raffigurati (soprattutto Soeur Blanche, la protagonista, ma anche la Priora) e travalica lo stesso misticismo che si esalta ed emerge nei profondi e ancestrali squarci corali (si pensi al “Salve Regina” dell’ultima scena, intonato dalle Carmelitane che salgono al patibolo, e al “Veni Creator Spiritus”, accennato da Blanche che sceglie di condividere il martirio con le consorelle).

L’esecuzione degli estratti dell’opera – ben distribuiti drammaturgicamente nella selezione operata – è stata indubbiamente di alto valore artistico: eccellenti tutti gli interpreti, il soprano Hélène Guilmette (Sorella Costance), il soprano Karen Vourc’h (Blanche), il mezzosoprano Monica Bacelli (Madre Marie), il tenore Jean François Borras (il Cavaliere de la Force), il baritono Laurent Naouri (il Marchese de la Force), i quattro artisti del coro (il mezzosoprano Michela Malagoli – una carmelitana –, il contralto Simonetta Pelacchi – Sorella Mathilde –, il contralto Tiziana Pizzi – Madre Jeanne – e il Tenore Carlo Napoletani – Thierry) e, soprattutto, il contralto Sylvie Brunet-Grupposo (la Priora) per un’intensa e irripetibile performance di straordinaria potenza espressiva. Buona (ma esuberante) s’è mostrata l’interpretazione del francese Stéphane Denève, che ha diretto l’orchestra ceciliana sempre in grado di esprimersi ai massimi livelli: consequenziali le prolungate ovazioni del non numerosissimo pubblico a tutti i protagonisti di un evento concertistico di notevole contenuto culturale.