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Delitto di Yara, la moglie di Bossetti: “C’è il tuo Dna su Yara. Io ti credo innocente ma ora devi spiegare”

Delitto di Yara, la moglie di Bossetti: “C’è il tuo Dna su Yara. Io ti credo innocente ma ora devi spiegare”

«C’è il Dna…»: Marita Comi l’aveva già detto al telefono alla suocera Ester Arzuffi, la donna del segreto lungo 43 anni, la mamma di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino di Yara Gambirasio. Ieri, nel carcere di Bergamo, ha ripetuto quelle parole, di fronte al marito: «C’è il Dna, cerca di spiegare, di ricordare…».
A dieci giorni esatti dal fermo del 16 giugno — la data che ha stravolto la sua vita e quella della famiglia dei suoceri — Marita Comi è entrata nel carcere di Bergamo. L’ha fatto di nascosto dalle telecamere e dalle antenne televisive accampate fuori dalla casa circondariale, accompagnata probabilmente da un cellulare della polizia penitenziaria, anche se l’accorgimento potrebbe essere stato un altro: semplicemente l’ingresso nell’area del carcere su un’auto con i vetri oscurati, forse di un amico. Marito e moglie hanno potuto riabbracciarsi, osservati da due guardie tramite il vetro ricavato nella porta blindata. Un incontro con tanto di registrazione audio-video, durato due ore, concesse dal pubblico ministero Letizia Ruggeri: di norma non si superano i 60 minuti dal momento in cui il parente si siede di fronte al detenuto. Gli occhi lucidi, fissi su quelli azzurri del marito, Marita Comi l’ha ripetuto più volte: «C’è il Dna, tenta di spiegare. Io ti credo, ma tenta di spiegare…».
Per entrambi il ricordo è vago: né Bossetti né la moglie, hanno detto dove erano e cosa stavano facendo, di preciso, la sera del 26 novembre 2010, tre anni e sette mesi esatti prima del loro incontro in carcere di ieri. Un periodo lungo, che può offuscare la memoria di chiunque, ma la Procura di Bergamo non può che avere un altro punto di vista: non c’è un alibi. Da qui l’appello quasi disperato di Marita, che chiede uno sforzo di memoria a quell’uomo che fino a 10 giorni fa non aveva un nome per gli investigatori, ma che lei ha sposato e al quale ha dato tre figli. Lo chiede anche per loro, che hanno 13, 10 e 8 anni. Ieri in carcere ha detto al marito che il più grande «sta capendo tutto», che lei fa fatica, perché deve portare sulle spalle un macigno. Ma ha anche riconosciuto che lui, Massimo Giuseppe Bossetti, sta vivendo un doppio dramma: c’è l’accusa di essere l’assassino di una ragazzina, ma anche la scoperta di non essere figlio di Giovanni Bossetti, l’anziano gravemente malato che per 43 anni ha chiamato papà. «So che stai soffrendo — ha detto Marita —. Io con tua madre non parlo più».
Ma c’è chi più di altri vuole sapere e capire. Sono mamma Maura e papà Fulvio Gambirasio. Fermato, gravi indizi, ordinanza, match del Dna. In questi tre anni e mezzo in cui hanno atteso di sapere chi ha tolto la vita alla loro bambina, hanno dovuto fare i conti con il dolore ma anche con procedure, termini giudiziari e scientifici. E ora che la Procura ha dato un nome a quel fantasma inseguito a lungo, vogliono capire bene che cosa succederà. Per questo motivo, nel pomeriggio di ieri sono andati nello studio del loro avvocato Enrico Pelillo, dove c’era anche il loro consulente, il genetista forense Giorgio Portera. Hanno fatto domande e ascoltato risposte sui passaggi giuridici e sui meccanismi genetici. Martedì, Portera parteciperà alle analisi sulla Volvo V40 e sul furgone Iveco di Bossetti. Accertamenti irripetibili notificati alle parti, quindi non solo all’indagato ma anche alla famiglia della vittima. I genitori di Yara sono le persone discrete di sempre. «Non nutrono acredine, sono consapevoli che c’è un’altra famiglia nella tragedia — parla per loro Pelillo —. Il Dna è una fonte di prova, sappiamo che l’indagato nega, vedremo come andrà il processo. Per ora, nel massimo spirito di collaborazione, parteciperemo alla consulenza tecnica». Intanto, carabinieri e polizia continuano a scavare nella vita di Bossetti. Non solo nei computer e nei telefonini. Negli ultimi giorni stanno sentendo anche colleghi di lavoro e vecchi amici per verificare la credibilità dell’indagato e capire quanto regga la sua immagine di uomo tutto casa e lavoro. Qualche testimonianza l’ha già fatta vacillare.