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Siria, sventola la bandiera nera dell’Is a Kobane. Proseguono gli scontri tra miliziani e combattenti curdi, manifestazioni di protesta in Turchia.

Siria, sventola la bandiera nera dell’Is a Kobane. Proseguono gli scontri tra miliziani e combattenti curdi, manifestazioni di protesta in Turchia.

La città strategica vicino al confine con la Turchia dove già da ieri sventolavano le bandiere nere dello Stato islamico, è stretta nella morsa dell’Is, ormai si combatte in strada, casa per casa. I militanti sono entrati dalla parte a sud ovest, conquistando diversi edifici e posizioni di attacco in entrambi i lati di Kobane. Dopo gli scontri violentissimi degli ultimi giorni, anche oggi gli aerei da guerra della coalizione guidata dagli Stati Uniti hanno colpito diverse postazioni di jihadisti. Giornalisti che si trovano sul lato turco del confine hanno sentito il rombo degli aerei da guerra e visto fumo levarsi da ovest. Ma non bastano, i raid delle scorse due settimane non sono serviti a aiutare le forze curde nella difesa della città, né hanno rallentato l’offensiva dello Stato islamico, che è ben armato, pronto. Gli unici a combattere sul campo contro le milizie jihadiste sono i volontari curdi.

“Ci sono stati scontri nella notte. Non pesanti ma l’Isis sta avanzando”, ha spiegato Rami Abdulrahman, capo dell’Osservatorio siriano per i diritti umani. “Sono a circa 50 metri all’interno della zona sudovest della città”. I combattenti dell’is “hanno conquistato il controllo di tre quartieri della città, l’area industriale, Maqtala al-Jadida e Kani Arabane, e stanno tentando l’assalto ad alcune aree a nord ed est del centro cittadino”. L’Osservatorio ha riferito che negli scontri di ieri a Kobane sono stati ucisi 34 jihadisti e 16 peshmerga curdi.

Ankara resta a guardare, e scoppia la protesta. Intorno a Kobane da giorni stazionano 10 mila soldati e decine di carri armati turchi. Sono schierati a meno di un chilometro dalla città, ma non hanno ricevuto l’ordine di intervenire. La Turchia interverrà “solo se la strategia degli Stati Uniti includerà un piano per il dopo Assad”, ha detto ieri in un’intervista alla Cnn il premier Ahmet Davatoglu. Per ora dunque, Ankara si limiterà a sostenere Kobane fornendo aiuti umanitari. Un aiuto di cui nessuno ha più bisogno, perché Kobane è ormai una città fantasma. Inoltre la gendarmeria turca controlla da due settimane la frontiere per impedire l’arrivo di armi e aiuti umanitari alle milizie curde e ai cittadini di Kobane, impedendo in qualche caso anche il passaggio ai giornalisti. Le manifestazioni delle popolazioni curde, anche quelle pacifiche, sono state disperse con i gas lacrimogeni. I dirigenti curdi hanno accusato Ankara di ostacolare e mettere in pericolo le negoziazioni tra il governo e i guerriglieri. In diversi quartieri di Istanbul e in numerose città turche sono scoppiate manifestazioni anche violente, lo riporta il quotidiano Hurriyet. La gente è contro la passività del governo di Ahmet Davutoglu e del presidente Recep Tayyip Erdogan di fronte all’assedio di Kobane. In alcuni distretti della capitale gli attivisti hanno eretto barricate e bloccato il traffico. Un autobus è stato bruciato e ci sono stati scontri tra polizia e manifestanti quando i primi hanno cercato di disperdere la folla con i lacrimogeni. Scene analoghe nelle città a prevalenza curda di Hakkari, Van, Diyarbakir, Batman, Mardi.

Ma la popolazione curda in fuga da Kobane continua ad andare in Turchia. Oltre 2 mila curdi siriani, compresi donne e bambini, sono stati evacuati. Si stima che 180 mila persone si siano rifugiate in Turchia dall’inizio dei combattimenti. Prima dell’offensiva, a Kobane ospitava i rifugiati della guerra civile tra i ribelli e il presidente Bashar al-Assad.

I Paesi arabi e gli altri alleati occidentali degli Usa hanno finora condotto circa il 10 per cento dei raid aerei contro Is in Iraq e Siria. I jet Usa (che hanno iniziato l’8 agosto a colpire Isis in Iraq e il 23 settembre la Siria) hanno effettuato 1.768 bombardamenti mentre i jet degli altri membri della coalizione contro lo Stato Islamico ne hanno effettuati 195. Lo riferiscono fonti del Pentagono che nonostante la discrepanze dell’impegno – peraltro finora rivelatosi sul terreno piuttosto inefficace – è determinante politicamente – per evitare che la campagna abbia i connotati, come l’invasione dell’Iraq nel 2003, di un’operazione occidentale contro musulmani – il coinvolgimento e la partecipazione di Bahrein, Giordania, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Paesi che sono stati finora riluttanti a fornire nei particolari l’entità del ruolo da loro svolto. Accanto a questi partecipano, finora su scala più ridotta, anche aerei da guerra di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Danimarca, Olanda e Australia. Finora sono state sganciate in due mesi 1.000 bombe e 47 missili da crociera Tomahawk, con una gittata fino a 2.500 km. Da domenica gli Usa hanno anche iniziato ad impiegare in Iraq gli elicotteri d’attacco Apache, nel paese da luglio ma finora inattivi.