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Accademia S.Cecilia, il giorno del riscatto romano per la grande musica. All’inaugurazione della stagione anche il presidente Napolitano. Tutti in piedi per Pappano e Kissin

Accademia S.Cecilia, il giorno del riscatto romano per la grande musica. All’inaugurazione della stagione anche il presidente Napolitano. Tutti in piedi per Pappano e Kissin

(di Sergio Prodigo) Una felice coincidenza di eventi ha contraddistinto e contrassegnato sabato 25 ottobre l’inaugurazione della Stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: il prestigioso binomio Pappano-Kissin, l’Auditorium del Parco della Musica esaurito in ogni ordine di posti, la presenza del Presidente della Repubblica e di numerose personalità della politica, della cultura e dello spettacolo e la proposizione di un programma di notevole impatto emotivo e di pregnante caratura estetica con musiche di Musorgskij, Rachmaninov e Strauss.

L’immenso pubblico presente (sia all’inaugurazione sia alla replica domenicale) testimonia di un profondo affetto e attaccamento popolare verso quella che ormai rappresenta l’unica struttura sinfonico-corale di una capitale, musicalmente vessata e trafitta da quelle recenti scelte politiche che l’hanno privata ex abrupto d’una secolare istituzione e dell’apporto di numerosi musicisti, forse ormai già in fuga verso lidi più sicuri.

Dopo la doverosa digressione, proprio l’iniziale esecuzione di “Una notte sul Monte Calvo” di Modest Musorgskij ha certamente rappresentato nel migliore dei modi possibili gli alti valori e pregi artistici delle compagini corali e sinfoniche ceciliane: il capolavoro del compositore russo è stato proposto nella versione per basso, coro, coro di voci bianche e orchestra. Si tratta di una rielaborazione dell’omonimo poema sinfonico o, meglio, dell’affresco sonoro ispirato alla “Notte di San Giovanni sul Monte Calvo”, che Musorgskij pensava di inserire  nell’opera collettiva “Mlada” (alla quale avrebbero collaborato altri tre compositori del “Gruppo dei cinque”, Cui, Borodin e Rimskij-Korsakov) e che, invece, trovò successiva collocazione (come intermezzo) nell’opera, mai ultimata, “La fiera di Soročinski”. Anche tale opera (come, del resto, gran parte della produzione sinfonica e lirica di Musorgskij) subì la “amorevole” revisione, operata con altri intendimenti artistici e con rigoroso accademismo, di Rimskij-Korsakov, pur se nel 1930 Vissarion Shebalin (un importante sinfonista russo, allievo di Myaskovsky) ne curò una versione più aderente allo spirito della partitura originale.

Di là da tale narrazione storica, proprio la versione di Shebalin conserva immutato il fascino del linguaggio di Musorgskij, estremamente avanzato in talune espressioni e nella stessa concezione armonica, poiché legato ad una forte componente di derivazione popolare e folkloristica (ma scevra da citazioni tematiche) della sua ispirazione e formazione musicale e ad una sorta di nobile dilettantismo, che si discostavano sensibilmente dal sinfonismo romantico. Eccellente s’è rivelata l’accurata interpretazione che Sir Antonio Pappano ha donato alla complessa composizione sinfonico-corale, arricchita dall’ottima performance del basso Deyan Vatchov e dalla straordinaria prestazione delle compagini corali (sempre superbamente preparate da Ciro Visco) e orchestrali.

Dipoi, il celeberrimo “Concerto n. 2” in do minore per pianoforte e orchestra op. 18 di Sergej Rachmaninov  ha esaltato al massimo livello possibile le ben note doti interpretative e l’eccelso talento musicale di Evgeny Kissin: le peculiari caratteristiche del pianismo rachmaninoviano (grandi spazi sonori, raddoppi costanti, scalarità, arpeggi d’ogni sorta, in pratica un virtuosismo esasperato sovente ai limiti della praticabilità) ben s’adattano alla sua straordinaria tecnica, ma non è stato raro ravvisare anche molteplici  momenti di estrema compenetrazione espressiva che il pianista russo ha saputo donare alle episodicità più liriche della partitura (specie nel secondo movimento (l’“Adagio sostenuto”). Al riguardo, anche il primo e il terzo movimento del “Concerto” (il “Moderato” e l’“Allegro scherzando”) non celano una sorta di glorificazione sia della tradizione romantica (chopiniana e lisztiana) sia del pregante marchio čajkovskiano, tuttavia, dietro l’apparente finalità virtuosistica, il facile ascolto dei tematismi non adombra anche una logica e coerente funzionalità strutturale, non sempre evidenziabile all’atto esecutivo se non attraverso una profonda e condivisa lettura del testo.

Così s’è operato un non facile rapporto simbiotico negli atti performativi di Pappano e di Kissin, perfettamente intesi e assimilati dall’immenso pubblico, che ha tributato agli interpreti entusiastiche ovazioni e prolungate acclamazioni, sfociate infine nell’attesa elargizione di due esaltanti “bis”, donati dall’ancor giovane pianista moscovita, già onusto a livello internazionale di premi e di riconoscimenti accademici.

La seconda parte del concerto è stata interamente dedicata a Richard Strauss, anche nella ricorrenza dei 150 anni dalla sua nascita, con l’esecuzione della “Sinfonia delle Alpi”. Si tratta di un complesso e poderoso affresco sinfonico (abbozzato dal compositore bavarese intorno al 1902 ma completato solo tredici anni più tardi), forse idealmente dedicato alla memoria di Mahler (scomparso nel 1911), poiché la titolazione primigenia, “L’anticristo”, avrebbe dovuto simboleggiare (citando dal suo diario) “la purificazione morale dell’uomo grazie ai suoi soli sforzi, la liberazione dal lavoro, il culto dell’eterna splendida natura”.

In realtà, l’opera tende a descrivere o interpretare, attraverso un arco temporale di 24 ore (dalla notte alla notte), una lunga escursione in montagna (nelle Alpi bavaresi, naturalmente), non aliena da una componente autobiografica (certamente risalente all’adolescenza) ma estremamente dettagliata nella ripartizione e nella stessa indicazione dei momenti e degli accadimenti episodici rappresentati. Val la pena di elencarli così come si estrapolano in successione dalla complessa partitura: “notte, sorgere del sole, l’ascensione, ingresso nel bosco, cammino lungo il ruscello, alla cascata, apparizione, sui prati fioriti, sul pascolo, fra macchie e fratte per sentieri impervi, sul ghiacciaio, momenti di pericolo, sulla cima, visione, si alza la nebbia, il sole si oscura a poco a poco, elegia, quiete prima della tempesta, uragano e tempesta, discesa, tramonto, ultima risonanza, notte”.

Musicalmente tale descrittivismo, sia naturalistico sia emotivo, si avvale della straordinaria abilità di orchestratore che Strauss aveva gradualmente maturato e affinato nell’elaborazione dei pregressi poemi sinfonici, ma anche strutturalmente – a parte le dimensioni mastodontiche (oltre 50 minuti di durata) e l’ampio organico dispiegato (120 esecutori) – l’“Eine Alpensymphonie” si configura come un unitario, seppur smisurato, movimento sinfonico, le cui episodicità o, meglio, sezioni episodiche, si susseguono senza soluzione di continuità, utilizzando diversificati elementi tematici e timbrici. Si possono avvertire e ravvisare sovente echi onomatopeici (jodler di legni misti a campanacci, registri acutissimi di violini, strida di ottoni, sfrigolii di pizzicati, dispiegamento di macchine del vento e del tuono, rulli raddoppiati di timpani e gran cassa, profonde sonorità di tromboni e tube), ma anche evocative e suggestive tematicità, doviziose di particolari timbricità (clarinetto piccolo, corno inglese, heckelphon), ed effetti di fusioni strumentali (corni e trombe fuori scena).

Il tutto, tuttavia, si snoda con l’estrema linearità di un linguaggio, forse meno astruso di altre sequenze straussiane forse più cerebrali (si pensi, ad esempio, alla cosiddetta “fuga della scienza” di “Also sprach Zarathustra”), ma certamente assimilabile e comprensibile, pur se sempre complesso a livello fraseologico e costantemente arricchito da sostrati armonici funzionali e, in certo qual senso, anche rassicuranti o poco arditi.

Naturalmente solo una grande orchestra può affrontare l’esecuzione di una tale colossale partitura, solo una compagine perfetta in tutte le sue sezioni e in tutti i suoi solisti, ossia l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: se poi a dirigerla è Pappano, l’atto in sé si muta sempre in un evento memorabile.

Così è stato nel concerto inaugurale (e nella sua replica), ma così sarà anche nell’ultima replica di martedì 28 e, soprattutto, nella prestigiosa tournée in Cina e Giappone che nelle prossime settimane vedrà impegnati l’orchestra ceciliana e il suo direttore, quali ambasciatori primari della cultura musicale italiana (con la flebile ma pur sempre viva speranza che anche la politica, di là dal presenzialismo, ne comprenda l’importanza e il valore).

Può sembrare, infine, quasi superfluo annotare come, al termine del concerto, gli astanti si siano espressi con interminabili e inestinguibili applausi.