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Accademia Santa Cecilia, grande concerto di chiusura del festival Prokof’ev con Gergiev e Kavakos

Accademia Santa Cecilia, grande concerto di chiusura del festival Prokof’ev con Gergiev e Kavakos

(di Sergio Prodigo) Sabato 13 dicembre al Parco della Musica si è concluso (ma con le repliche del 14 e del 15) uno degli eventi più significativi della stagione sinfonica ceciliana con uno straordinario concerto che ha visto protagonisti il coro di voci bianche, il coro e l’Orchestra dell’Accademia, diretti dal grande Valery Gergiev, e il violinista Leonidas Kavakos.
In precedenza, mercoledì 10, giovedì 11 e venerdì 14 era stata l’Orchestra del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo a esibirsi alla Sala Santa Cecilia, sempre con la direzione di Gergiev e la partecipazione di Kavakos: nei tre concerti sono state eseguite le sette “Sinfonie” di Prokof’ev (nell’ordine: la n. 1 in re maggiore “classica” op. 25, la n. 4 in do maggiore op. 112, la n. 5 in si bemolle maggiore op. 100, la n. 2 in re minore op. 40, la n. 7 in do diesis minore op. 131, la n. 3 in do minore op. 44 e la n. 6 in mi bemolle minore op. 111) e il secondo “Concerto” in sol minore per violino e orchestra op. 63.
Cronache e commenti parlano di esecuzioni impeccabili da parte dell’eccellente orchestra russa e di magistrale e fedele performance interpretativa del direttore e del solista: l’ampio excursus sul sinfonismo di Prokof’ev, dà agio, tuttavia, prima di affrontare i contenuti specifici dell’ultimo programma, di discettare brevemente su quella particolare dicotomia estetica o, meglio, stilistica che è consuetudine ravvisare nel generale contesto dell’opera del Nostro.
In effetti, la sua notevole produzione lirica, cameristica e sinfonica, potrebbe essere suddivisa o ripartita in due distinte fasi: dopo gli studi presso il Conservatorio di Pietroburgo Sergej Prokof’ev (1891-1953) si affermò come pianista e compositore e, proprio in tale fase, sviluppò un linguaggio ricco di dissonanze e contrasti con il frequente impiego di modulazioni improvvise e squarci bitonali e politonali (si pensi ai lavori teatrali “L’amore delle tre melarance” e “Il giocatore”, ai cinque “Concerti” per pianoforte e orchestra, alle prime quattro “Sinfonie”, al primo “Concerto” per violino e orchestra, alle prime cinque “Sonate”, alla “Toccata”, ai “Sarcasmi” e alle “Visioni fuggitive” per pianoforte). Dopo il ritorno definitivo in patria, nel 1936, accettò la linea culturale del regime sovietico e il suo stile, appunto nella seconda fase, tese a mitigare le asprezze armoniche e ad avvalersi del diatonicismo e di ampie frasi melodiche, riaffermando quasi sempre il senso tonale pur con soluzioni mascherate di geniale inventiva (anche in tal caso vanno menzionati i lavori teatrali “Matrimonio al convento”, “Guerra e pace”, “L’Angelo di fuoco”, la fiaba sinfonica “Pierino e il lupo”, i balletti “Romeo e Giulietta”, “Cenerentola” e “Il fiore di pietra”, le ultime tre “Sinfonie”, il citato secondo “Concerto” per violino e orchestra, la cantata “Aleksandr Nevskij”, le 2 “Sonate” per violino e pianoforte, la sesta, la settima, l’ottava e la nona “Sonata” per pianoforte).

Un’oziosa diatriba su una sorta di antinomia linguistica e, per alcuni versi, anche contenutistica forse caratterizzò una supposta ambiguità dei giudizi (e dei pregiudizi) nei confronti del linguaggio musicale di Prokof’ev da parte della critica musicale (militante) degli anni sessanta e settanta dello scorso secolo: oggi, con maggior distacco e con uno spirito rigorosamente ectòdico, l’analisi alla fonte delle partiture costituirebbe e restituirebbe una certa equanimità di discernimento fra momenti compositivi certamente difformi ma non necessariamente connessi ad una sorta di possibile involuzione che segnerebbe il transito da un marcato atonalismo ad un consapevole riemersione della tradizione tonale.
Certamente l’“Ouverture russa” op. 72, composta significativamente da Prokof’ev nel 1936 ed eseguita inizialmente dall’Orchestra dell’Accademia, si colloca decisamente nel secondo periodo stilistico e all’ascolto si avverte (e s’è avvertito) il topos proprio e caratteristico di un nazionalismo musicale di tipo quasi celebrativo o, almeno, teso a glorificare le tradizioni (appunto) del popolo russo. Eppure, di là dalla mirabile tecnica orchestrale che il compositore dispensa con innegabile maestria e raffinata tecnica, si evidenziano l’autentica vitalità e originalità di ben sei tematismi impiegati e la loro coerente interconnessione, che sfociano in una grandiosa apoteosi finale, seppur retorica ma sapientemente edificata sull’artificio della sovrapposizione polivoca. Ardua e irta di difficoltà d’ogni sorta tale partitura: solo una grande orchestra è in grado di interpretarla, disvelando ed esibendo un virtuosismo esecutivo comune a tutte le sezioni, grazie anche al particolare stato di grazia palesato da Valery Gergiev e al suo inimitabile gesto direttoriale.
In netto contrasto estetico il “Concerto n. 1” per violino e orchestra op. 19, proposto di seguito: composto nel 1917 (oltre vent’anni prima della citata “Ouverture”), rivela i tratti di una lungimiranza strutturale e armonica, che forse avrebbe potuto mutarsi e concretarsi – ma in altre circostanze o per scelte diverse – nella consapevole dissoluzione del tonalismo e (forse) nell’acquisizione di più avanzate e autonome tecniche compositive, addirittura non distanti dall’incombente serialismo schönberghiano o, quantomeno, da un definitivo e irreversibile distacco dal retaggio tonale. Del resto, a parte l’inusuale struttura formale e la contestualità ciclica dei tre movimenti (“Andantino”, “Andante assai”; “Scherzo”, “Vivacissimo”; “Moderato”, “Allegro moderato”), la componente armonica si giova di un libero ma funzionale trattamento della dissonanza, fondamentalmente intesa come principio dinamico, mentre la tematicità, sempre a livelli estremi di virtuosismo nella parte solistica, si rivela cangiante e contrastante, alternando sublimi cantabilità sognanti e marcate asperità fraseologiche.
Se per l’“Ouverture” – come s’è evidenziato – è fondamentale l’apporto di una grande orchestra, così il “Concerto” necessita di un sommo violinista, ossia di un solista di altissimo rango e valore qual è Leonidas Kavakos: commovente, strabiliante e irripetibile la sua interpretazione, tecnicamente perfetta ma, soprattutto, in grado di rendere coerente e logica ogni possibile espressione tematica e ogni sequenza di contorno strutturale. Paralizzati e rapiti da tale mostra di musicalità e di valentia esecutiva, gli astanti gli hanno riservato quasi un’orgia di ovazioni e acclamazioni, ripagati infine dalla concessione di un mirabile e intenso “bis” bachiano.
L’apparente e già menzionata dicotomia stilistica di Prokof’ev, forse ben rappresentata dai brani eseguiti nella prima parte, può trovare e conseguire una reale sintesi a livello estetico-compositivo proprio nel lungo e complesso lavoro sinfonico-corale proposto nella seconda, l’Oratorio per voce recitante, soli, coro, coro di voci bianche e orchestra “Ivan il Terribile” op. 116. Tale opera, assemblata da Abram Stasevič, venne tratta dalle musiche per due film, diretti nel 1942 e nel 1946 dal celebre regista Sergej M. Ejženstein e ispirati alla figura dello zar Ivan IV (vissuto nel XVI secolo). Va rilevato come non si trattasse, analogamente alle musiche per l’altro capolavoro di Ejženstein, “Aleksandr Nevskij”, di colonne sonore o di commento musicale, almeno nella specifica accezione contemporanea di tale tipologia, quanto piuttosto di una trasposizione interpretativa sul piano sonoro dell’immagine visiva in senso lato che Prokof’ev poneva in essere quasi come atto creativo autonomo, al pari dell’azione scenica o filmica rappresentata e senza relativi condizionamenti. In simile contesto proprio tale atto tendeva a conglobare o fondere lo spirito innovativo represso con l’aderenza ai modelli o ai condizionamenti delle direttive estetiche ždanoviane senza cedimenti eccessivi al realismo tonale o alle possibili accuse di formalismo.
I venticinque numeri che compongono l’Oratorio risultano, così, estremamente ricchi di momenti suggestivi, lirici ed evocativi, sempre sorretti da una orchestrazione di rara efficacia timbrica; particolarmente intensi e coinvolgenti gli squarci corali, soprattutto quelli affidati alle voci bianche. A livello esecutivo maiuscola si è rivelata proprio la performance del coro dell’Accademia ed eccellente quella del coro di voci bianche: al riguardo, si è potuto notare e ammirare l’ottimo lavoro di preparazione operato, come sempre, da Ciro Visco. Ottima è risultata l’interpretazione delle parti solistiche da parte del contralto Yulia Matochkina, del baritono Roman Burdenko e dell’enfatica voce recitante, Tommaso Ragno; sempre perfetta, di là da ogni ulteriore encomio sulla sua professionalità e caratura artistica, l’orchestra ceciliana, diretta da uno straordinario Gergiev, sempre all’altezza della sua fama e giustamente festeggiato e omaggiato – prima del concerto – da Bruno Cagli, Presidente-Sovrintendente dell’Accademia di Santa Cecilia, per i cinque lustri di collaborazione con il prestigioso ente della nostra Capitale. L’entusiasmo e le prolungate ovazioni del numeroso pubblico presente hanno suggellato il successo di un memorabile festival musicale.