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Al Parco della Musica si celebra il Novecento. Di scena il percussionista Martin Grubinger

Al Parco della Musica si celebra il Novecento. Di scena il percussionista Martin Grubinger
Di Sergio Prodigo.

Sabato 31 gennaio (con repliche il 1° e il 3 febbraio e prestigiosa trasferta scaligera il 2) al Parco della Musica l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Peter Eötvös (con la straordinaria partecipazione del percussionista Martin Grubinger) si è cimentata con un arduo e difficoltoso repertorio, in gran parte accentrato su musiche di un Novecento ormai crocianamente storico (“Melodien”di György Ligeti, “Three Places in New England” di Charles Ives e “An American in Paris” di George Gershwin) ma anche arricchito dalla “prima” ceciliana (e italiana) di un complesso lavoro dello stesso Eötvös (“Speaking Drums” per percussione e orchestra). Il malcelato e non casuale accenno a Croce sta a sottintendere (forse) che la musica del Novecento si è ormai storicizzata, almeno nel senso di un ascolto, critico o acritico, che mentalmente trasponga la contemporaneità ai contenuti estetici di un periodo pur suddiviso (a livello ancora estetico) nelle due segmentazioni abituali (prima e seconda metà del ventesimo secolo). Così, se le opere di Ives e Gershwin appartengono a quel primo segmento e al secondo le corrispettive di Ligeti, pur correlandovi la diversificazione dei linguaggi, le espressioni o le creazioni artistiche contemporanee (nello specifico Eötvös, ma l’analogia potrebbe estendersi a molti compositori viventi) proseguono lungo la scia di una sorta di metastoria, ossia s’avvalgono di materiali e lessici arricchiti – come asseriva Montale – «d’incrostazioni d’ogni genere», senza che possano determinarsi o sopravvenire «mutazioni apparenti». Tale arzigogolo esplicativo potrebbe illustrare e chiosare la logicità e l’assonanza della proposizione (nella prima parte del concerto) delle due composizioni di Ligeti e di Eötvös: accomunate da una coincidente etnicità (entrambi i compositori sono di origine transilvanica) e da pregressi studi magiari, tendono a condividere i pur difformi manierismi delle riaggregazioni tonali e micropolifoniche, la chiarificazione delle linee melodiche funzionali e i connessi intrichi ritmici e poliritmici. Va rilevato, comunque e nello specifico musicale, che “Melodien” di Ligeti risale al 1971, quindi susseguente ai lavori degli anni sessanta, legati agli stilemi della neoavanguardia e caratterizzati dall’uso di larghe fasce cromatiche statiche (“Atmosphères” per orchestra, “Requiem” per soli, coro e orchestra, “Lux Aeterna” per coro e “Ramifications” per archi): accoglie, pertanto componenti retrospettive e allusive di linguaggi pregressi (come nell’opera “Le Grand Macabre”, nelle “Drei Phantasien” per coro e nel “Concerto” per violino e orchestra), ma si avvale di particolari concatenazioni tematiche sempre sorrette da definite e moltiplicantesi sovrapposizioni armoniche politonali. Perfetta strumentalmente e perfettibile nella contestualità concertante s’è rivelata la sua esecuzione da parte dell’orchestra ceciliana (ridotta nell’organico) e del direttore, ma tale considerazione s’attaglia e si estende anche all’attesa “prima” dello stesso Eötvös, “Speaking Drums” (ovvero “Quattro poemi” per percussione solista e orchestra su testi di Sándor Weöres, come recita l’esplicativo sottotitolo). Si tratta di un complesso lavoro, articolato in tre movimenti (“Dance song”, “Nonsense Songs” e “Passacaglia”) e basato sull’emissione stocastica di lessemi e versi (estrapolati dai citati quattro poemi) da parte del percussionista solista (nel contestuale atto esecutivo), che agisce sulla scena con movenze attoriali, districandosi fra sei distinte postazioni strumentali (aggreganti ogni possibile strumentario percussivo). I relativi elementi del linguaggio musicale di tale composizione non si discostano da un marcato strutturalismo che talvolta non disdegna di recuperare ben definiti nessi armonici, di evidenziare il parossismo ritmico e di rammentare (specie nella teorica sequenza di danze barocche della “Passacaglia”) possibili schemi formali: tuttavia, l’ampia libertà di improvvisare, concessa in taluni momenti topici al solista, conferisce un’aura di aleatorietà allo stesso contesto organico dell’opera, che ne attualizza la già rammentata componente storicistica (con annesse reminiscenze xenakisiane).

Strabiliante e fenomenale la performance di Martin Grubinger: eccezionale s’è palesata la sua versatilità tecnica in tutti gli strumenti a percussione e la stessa presenza scenica di indubbia efficacia rappresentativa; ugualmente incisiva e determinante è apparsa la prova fornita da un’orchestra, sempre ridotta nell’organico previsto, nobilitata dalle eccellenti prestazioni delle sue prime parti (va evidenziata, al riguardo, quella della prima tromba, Andrea Lucchi) e ben diretta dall’autore dello spettacolare trittico. Il conseguente ampio consenso, tributatogli dal numeroso pubblico presente, ha certamente premiato la sua dicotomia artistica, ma si è esteso con crescente intensità sia alla compagine orchestrale sia al prestigioso solista. Proprio i primi leggii degli archi dell’Accademia (ma anche i fiati solisti) sono risultati protagonisti anche del brano eseguito in apertura della seconda parte del concerto, i “Three Places in New England” di Charles Ives (Danbury, Connecticut, 1874 – New York, 1954). Va debitamente premesso e osservato, tuttavia, come (senza dover contraddire, anzi rafforzare, lo spirito storicistico che vuole contrassegnare le varie fasi esegetiche) il compositore statunitense rappresenti una atipicità, se non una spiccata anomalia, nel contesto della musica americana del Novecento, poiché un personale e pionieristico sperimentalismo è alla base della sua concezione compositiva, non aliena da audaci intuizioni e innovazioni antiaccademiche, che s’evidenziano sovente in affastellamenti ritmici, atonalismi di fondo e politonalismi indistinti. Del resto, Ives non fece della musica la sua professione (dopo gli studi musicali, infatti, intraprese una brillante carriera di assicuratore), pur se i suoi lavori cominciarono a essere eseguiti e apprezzati solo dopo il 1930: vanno doverosamente menzionati i ventitré “Studi” (composti fra il 1907 e il 1909), la “Concord Sonata” per pianoforte (1909-1915), le quattro “Sinfonie” (1895-1916) e i 150 “Songs”. Tornando ai “Three Places in New England”, va evidenziato come il trittico sinfonico, composto fra il 1903 e il 1914, contenga sia le peculiarità tecniche chiosate (specie nel terzo brano) sia una sorta di rievocazione storico-musicale (nei primi due), che attinge giocoforza le incidentalità tematiche dall’ambito della tradizione popolare ed extracolta nordamericana. Il primo brano, “The ‘St. Gaudens’ in Boston Common”, si ispira al monumento del colonnello Shaw e del suo reggimento di afro-americani: si rinvengono e s’intendono citazioni di “Old Black Joe”, “Battle cry of Freedom” e “Marching Trhough Georgia”, ossia temi e motivi patriottici della guerra civile, ma intessuti in un coacervo fraseologico di fiati acuti, di accordi pianistici vaganti e di ritmi ostinati di contrabbassi e timpani. Nel secondo brano, Putnam’s Camp, Redding, Connecticut”, ispirato ad altri momenti della storia americana, la citazione stessa della marcia militare “The British Granadiers” si associa e si fonde con l’evocazione di motivi folklorici, forse legati a ricordi infantili: tale reviviscenza determina una costante poliritmia e onirici contrasti timbrici di mirata spettacolarità espressiva.

Infine, per il terzo brano, “The Housatonic at Stockbridge”, che richiese una lunga elaborazione decennale, l’assenza di citazioni è compensata in certo qual modo da suggestioni di stampo impressionistico, poiché la descrizione (rammentata dallo stesso autore) di una passeggiata domenicale (dei signori Ives) lungo le rive del fiume Housatonic si concreta in guisa di trasfigurazione musicale della rimembranza medesima, mercé l’ausilio di contrapposizioni timbriche e di melodicità sommerse, infino al tumultuoso cluster policromo e agli echi sommessi della finale evanescenza. Partitura indubbiamente complessa sotto ogni possibile angolazione tecnico-musicale: si era, appunto, fatta giusta menzione delle prime parti dell’orchestra ceciliana e, in tale contestualità, l’esecuzione non poteva che rivelarsi inappuntabile, dando agio ai musicisti di mostrare e dispensare professionismo e virtuosismo ai massimi livelli e al direttore di rendere a pieno lo spirito del particolare linguaggio di Ives. Logica, quindi, e musicalmente quasi consequenziale la proposizione del brano finale, il celeberrimo “An American in Paris” di Gershwin: tale lavoro, forse impropriamente catalogabile o identificabile nell’ambito formale dei poemi sinfonici, anche perché scritto nel 1928, descrive sì le “promenades” parigine di un turista yankee, ma in pratica non cela altri intenti, sempre descrittivi ma autobiografici. Rappresenta, in effetti, l’evoluzione del suo stile e il raffinamento della tecnica compositiva che trova e acquisisce una piena maturità espressiva nella ricercata (e, a tratti, raveliana) strumentazione, nella giustapposizione di variegati e accattivanti tematismi e nella stupefacente dovizia armonica. L’orchestra di Santa Cecilia, nell’intero suo organico, ha interpretato con estrema perfezione stilistica il capolavoro gershwiniano, evidenziando vieppiù la già rammentata valentia dei suoi solisti (soprattutto della spalla, Roberto Gonzáles-Monjas, ineccepibile e straordinario negli assolo disseminati in tutti i brani dell’intero programma). Applaudito da un pubblico entusiasta, Peter Eötvös ha sagacemente e bravamente diretto le quattro difformi proposizioni musicali, conferendo logica coerenza al continuum storico-estetico rappresentato.