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Milano, è morto il più grande regista e innovatore del teatro italiano contemporaneo Luca Ronconi

Milano, è morto il più grande regista e innovatore del teatro italiano contemporaneo Luca Ronconi

“Non voleva morire”, dice ora commosso Sergio Escobar il direttore del Piccolo Teatro che gli è stato accanto fino alla fine. “Aveva in testa un sacco di progetti, pensava al nuovo spettacolo di maggio, Le donne gelose, agli altri alvori dei prossimi anni. Non voleva morire”. Luca Ronconi si è spento oggi a Milano. Il più grande regista italiano, uno dei nomi più celebri del teatro europeo contemporaneo se ne è andato, il maestro di generazioni di attori, l’artefice dei più bei spettacoli visti in questi anni, dall’Orlando Furioso del ’69 a Gli ultimi giorni dell’umanità, da Lolita all’ultimo bellissimo, sempre applaudito Lehman Trilogy in scena in questi giorni al Piccolo Teatro.

Proprio oggi la recita pomeridiana è andata in scena quando la notizia era già arrivata agli attori che hanno recitato col dolore nel cuore. Luca Ronconi aveva continuato anche dopo il debutto ad andare dai suoi attori, in teatro, a stare con loro, a restare loro vicino. Almeno fino a qualche giorno fa, quando una polmonite lo aveva costretto a letto.

A 81 anni (l’8 marzo ne avrebbe computi 82), nonostante gli otto anni di dialisi, il suo corpo reggeva ancora bene: “per fortuna il mio corpo è forte” aveva ripetuto poco prima del debutto di Lehman trilogy ricordando perfino con serenità un brutto incidente, una caduta, che la scorsa estate lo aveva costretto a un lungo periodo di riposo. Ma invece non ce l’ha fatta: la polmonite si è complicata e ormai nelle ultime ore la situazione era apparsa a tutti grave. E’ morto in ospedale, al Policlinico di Milano, nel pomeriggio di oggi.

La sua assenza nel teatro italiano si sentirà enormemente, assenza culturale e umana perchè con Ronconi se n’è andato un grande maestro dell’esperienza teatrale contemporanea, l’artista della più matura riflessione sulle possibili articolazioni del linguaggio drammaturgico contemporaneo, timido, ritirato, umanissimo e geniale, capace di dare forma al bisogno di senso di questi nostri tempi. ,

Ronconi era nato a Susa in Tunisia nel 1933

Per caso, perchè il padre, che presto abbandonerà lui e la madre, era lì a lavorare. Tornato a Roma, casa in via Moserrato proprio nel centro dove sua madre aveva preso in affitto una parte di appartamento da una ricca signora, si era diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica nel 1953. Il teatro era stata la sua passione fin da bambino, raccontava. Era la madre, donna forte, ormai separata dal marito (“non ho mai voluto avere un rapporto con lui” diceva Ronconi), maestra di scuola, ad averlo avvicinato ai libri (“Mi leggeva Dante”) e al teatro e il picolo Luca una volta cresciuto aveva finito per trovare lì, sul palcoscenico, la sua cuccia, il luogo in cui riusciva a stare bene, a sentirsi in relazione con gli altri e ad aprire il suo mondo segreto, riservato, poco propenso alle esibizioni. “La mia prima volta da spettatore non l’ho mai dimenticata, è fra le mie memorie più vive. Mia madre mi portò in un teatro di Roma a vedere una commedia. Non saprei dire che cosa fosse. Era una commedia in genovese con Gilberto Govi. Ricordo che si parlava di una gallina, ricordo che mia madre me ne parlava, ricordo che ero in uno stato di sovreccitazione”.

Ronconi aveva esordito come attore in Tre quarti di luna di Luigi Squarzina, accanto a Vittorio Gassman. Erano tempi in cui, secondo la leggenda, piacevano i bulli, piaceva Corrado Pani, non lui che era timido e chiuso. Anche se, sempre la leggenda, racconta di serate brave con compagni di brigata come Enrico Lucherini, Flora Clarabella, Roberto Capucci, Paolo d’Espagnet per le strade della capitale. Recita ancora per qualche anno appena uscito dall’Accademia, ma capisce presto che è la regia, l’analisi dei testi, il lavoro sull’attore la sua vera vocazione. Inizia a lavorare come regista nel 1963, con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volonté. Ma il suo primo capolavoro nel 1969 è l’Orlando furioso di Ariosto, nella versione di Edoardo Sanguineti: uno spettacolo immaginifico per chi lo vide, con gli attori che recitavano in contemporanea in spazi diversi spostandosi su enormi oggetti e carrelli scenici. Cose d’avanguardia se ne erano viste in teatro in quegli anni, ma quello spettacolo era una cosa completamente nuova per come lucidamente scardinava i linguaggi della scena e li forzava con esiti mai visti. Fu un successo enorme con echi mondiali, e da subito lo proietta nell’empireo dei grandi registi europei, lui poco più che trentenne accanto a grandi come Strehler, Stein da cui lo separava la vocazione sperimentale, l’ossessione dell’artista che vuole provare e lavorare su terreni inesplorati che fossero testi letterari “piegati” al teatro o testi dichiaratamente irrapresentabili che lui, ingegno analitico, speculativo, oltre che grande uomo di cultura, riusciva a “sciogliere” sul palcoscenico.
Di Ronconi andrebbe ricordato tutto, perchè tutto è stato importante e decisivo per l’evoluzione del teatro e del lavoro dell’attore: il biennio 1977 – 1979 del laboratorio al Metastasio di Prato dove fece il bellissimo La torre di von Hofmannsthal 1978 e dove sperimentò un nuovo modo di produrre, firmando capolavori indimenticabili, Ignorabimus di Holz 1986, Tre sorelle di Cechov, cui seguirono spettacoli in altri spazi teatrali come L’Affare Makropoulos, del 93, (al Teatro di Genova) dove fa invecchiare di centotrent’anni Mariangela Melato (poi ringiovanita a sei anni di età in Maisie nel 2002 al Piccolo) una delle sue attrici e attori “fedeli” cui andrebbero aggiunti Maria Paiato, Umberto Orsini, Riccardo Bini, Massimo Popolizio, Massimo De Francovich, Paolo Pierobon e diverse generazioni di interpreti che lavorando con lui si sono sentiti come alla Sorbona.

Dall’89 arriva finalmente anche il riconoscimento ufficiale (i suoi rapporti con l’establishment fino a questo momento non sono stati affatto sereni) al suo lavoro di regista e al suo ruolo fondamentale nel teatro europeo: viene nominato direttore allo Stabile di Torino dove resterà fino al 90 firmando tra i tanti un altro capolavoro, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus al Lingotto (1991), un altro dei suoi spettacoli “impossibili” dove l’azione scenica occupa non solo tutto lo spazio dell’ex-fabbrica, ma gli spettatori girano seguendo le diverse azioni in contemporanea: una ricostruzione del periodo della Grande Guerra magica, suggestiva e di grande impatto “civile”. Da Torino Ronconi si sposta al Teatro di Roma dal 1994 al 1998, e lì nel 1996 tra i tanti lavori firma Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda. Nel 1999 alla morte di Giorgio Strehler, con cui c’era sempre stato un rapporto di reciproca stima, ma a dovuta distanza, Ronconi approda al Piccolo Teatro di Milano, accanto al direttore Sergio Escobar. Lui è il direttore artistico e subito la sua impronta “ardita” si sente. Il primo anno mette in scena un testo non teatrale cone Lolita di Nabokov. A proposito di Strehler dice: «Non è vero che tra noi c’era gelosia. Ci vedevamo poco. Avevamo dodici anni di differenza, ma di fatto eravamo coetanei. Il conflitto tra noi era una leggenda: eravamo solo diversi, lui era la personalità che tutti sappiamo, io mi tengo più in disparte. Mi piace credere che all’ammirazione e rispetto che ho sempre avuto per lui corrispondesse una stima se non per le cose che faccio, per il modo con cui affronto il mio lavoro, anche nel teatro che lui fondò». C’era da giurarci, visto che nel 2002 sempre al Piccolo dirige in una ex fabbrica, Infinities, tratto da un testo scientifico del cosmologo John David Barrow: cinque spettacoli in contemporanea da vedere come in un labirinto organizzato con logica matematica. Una “impresa”, una cosa incredibile. Dal Piccolo non si staccherà più, anche quando in anni recenti Ronconi lascerà la carica di direttore artistico per restare il regista stabile e consulente artistico del teatro. Al Piccolo lascia gli spettacoli della maturità dove la vena sperimentale si fa più pacata ma non meno determinata che in passato: il Candelaio di Giordano Bruno, Quel che sapeva Maisie di Henry James, Infinities di John David Barrow, Prometeo incatenato di Eschilo, Le Baccanti di Euripide, Le rane di Aristofane, il bellissimo Professor Bernhardi di Arthur Schitzler, Il ventaglio di Goldoni, fino all’ultimo Lehman trilogy di Stefano Massini con un gruppo di attori formidabili, tra cui Massimo Popolizio e Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Francesca Ciocchetti, Paolo Pierobon fino al giovane Fabrizio Falco.

Ronconi è stato anche uno dei più bravi e amati registi di lirica, uno sui tutti Il viaggio a Reims dell’edizione pesarese al Festival Rossini con Claudio Abbado o il Guglielmo Tell scaligero con Riccardo Muti e proprio in questi giorni sarebbe dovuto venire a Roma, per la prima volta impegnato all’Opera, per una Lucia di Lammermoor. Tra le tante onoreficenze, svariate le lauree honoris causa.

“Mi piacciono i boschi, le lepri, i campi coltivati, le volpi, i torrenti, i cinghiali, gli ulivi, le stelle. Ed è per questo che sono andato a vivere in una casa in Umbria, in un paesino che si chiama Casa del Diavolo, dove posso vedere tutte queste cose”, era tra le poche cose che raccontava di sé. E lì in Umbria con Roberta Carlotto aveva fondato il Centro di Santa Cristina, una scuola di perfezionamento pagata con soldi di tasca sua, un luogo ameno dove “studiare” il teatro, un luogo per la creatività che solo Ronconi poteva realizzare.Lì a Santa Cristina, tra i boschi e il verde della campagna, in una pace irreale e dolcissima, dove è seppellita anche la mamma, verrà ora sepolta la sua salma per volontà dello stesso Ronconi. Tra i pensieri più caldi, intimi e belli di Ronconi: “Ho imparato a conoscere il mondo attraverso il teatro. Da adolescente ero completamente chiuso su me stesso. Poi facendo il regista, non l’attore, ho imparato a conoscere gli altri e me stesso”.
E il teatro non lo dimenticherà.

Si attende di sapere quando saranno i funerali e se ci sarà la camera ardente. “Non amava le esposizioni”, ha detto Sergio Escobar direttore del Piccolo, “vorremmo rispettare finché possiamo le sue volontà”. Domani, domenica, i suoi attori, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Massimo de Francovich, lo ricorderanno alle 16 dal palcoscenico prima dello spettacolo. E la Scala, sempre domani, terrà la bandiera a mezza asta sulla sua facciata.