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Strage di Tunisi, le testimonianze dei superstiti: “Pensavamo di non tornare più”. “Non si possono spiegare quelle cose”

Strage di Tunisi, le testimonianze dei superstiti: “Pensavamo di non tornare più”. “Non si possono spiegare quelle cose”

«Eravamo nel museo, ho sentito i botti, ho visto questi ragazzini che sparavano e con mio marito siamo scappati prendendo una scala di sicurezza. I quattro amici che erano con noi stavano facendo fotografie e si sono attardati. Devono essere andati da un’altra parte, li abbiamo persi di vista. La prego, il telefonino si sta scaricando e devo parlare con mia figlia…»

La chiamiamo noi, da qui, forse, è più semplice…

«No, le ho già parlato una volta e voglio che risenta la mia voce perché si tranquillizzi. Ci stanno portando, credo, in una caserma dell’esercito. Subito dopo la sparatoria ci hanno stipati dentro un’altra caserma piccolina davanti al museo….». La voce di Maria Antonietta Santoro, cinquantenne impiegata dell’ufficio «Affitti commerciali» del settore Patrimonio del Comune di Torino, sparisce all’improvviso, come temeva, insieme con la carica del suo telefonino.
Un momento di amarezza di un pomeriggio apparentemente di sollievo anche se sul destino di altre due colleghe (o forse il marito di una di loro) con le quali da anni condivide l’ufficio al quarto piano di piazza Palazzo di Città non ci sono certezze e l’ufficialità si affida alla definizione di «dispersi». Santoro, il marito, le tre colleghe, una delle quali pure lei accompagnata dal consorte, partecipavano, insieme con altre 25 persone – tutte in salvo – alla crociera su «Costa Fascinosa» organizzata dal circolo ricreativo dei dipendenti del Comune di Torino. Una vacanza diventata un incubo.

«Eravamo contenti, molti di noi non avevano mai visto la città», racconta al telefono Celestino Sereno, il vicepresidente del circolo torinese. «Come spesso accade in queste circostanze – prosegue – si formano i gruppetti, ci si divide: c’è chi, come me, ha fatto un giro della città in taxi, chi è andato a fare shopping al Suk e chi ha preferito l’arte e la cultura ed è andata al museo del Bardo». Alla crociera non ci sono solo i dipendenti comunali torinesi, ma turisti cuneesi, novaresi, una biellese. E poi marchigiani, molisani, grossetani, veneti, ravennati. I fortunati, quelli che si sono attardati oppure hanno scelto altre mete in città, vengono subito fatti rientrare sulla nave, nel porto blindato dalle forze dell’ordine. Come Nicola Previati, 34 anni: «Ero appena arrivato in centro, con un taxi, quando mi ha telefonato mia mamma. Mi ha detto “Scappa, scappa da li”, c’è un attentato».

Momenti di panico, che diventano angoscia per chi si trova nel museo. Legati a Torino sono altri due turisti sfuggiti ai terroristi: sono i genitori, romani, di Ariel Di Porto, il rabbino capo del capoluogo piemontese. Alberto e Anna Di Porto, 71 e 60 anni, hanno raccontato ai parenti «di avere sentito gli spari» ma di non avere individuato nella confusione gli assalitori. L’uomo si è ferito a una gamba scavalcando un muretto nelle fasi concitate della fuga ed è stato portato in ospedale per accertamenti. La moglie è stata portata in un bunker dalla polizia. «Ora ogni mio sforzo è di riportarli al più presto a casa» diceva ieri sera il figlio Ariel.

Finestrino in frantumi

Anche Sara Belmessieri, 34 anni di Sestri Ponente dove fino a un anno fa gestiva un negozio di oggettistica cancellato dalla crisi, partita lo scorso 15 marzo da Savona insieme a un’amica, s’è ritrovata ostaggio nel museo: «Ero lì, sentivamo sparare, urlare. Non si possono spiegare quelle cose, pensavo di non tornare più…». Drammatica la testimonianza di Anna Pegorini, medico della Asl di Savona: «Ho visto la morte tutto intorno a me. Eravamo sul bus fermi fuori dal museo, abbiamo sentito degli spari, il finestrino vicino a me è andato in frantumi, io mi sono buttata giù. Una persona dietro di me è stata colpita alla testa, un altro cadavere era vicino all’uscita laterale. Poi il pullman si è mosso, sono saliti alcuni militari e ci hanno fatto scendere di corsa». Salva. Come 25 donatori di sangue della Fidas di Agliè, nel Canavese, arrivati al museo del Bardo mentre era in corso l’attacco terroristico. «L’autista dell’autobus – raccontano – quando ha visto la polizia senza dirci che cosa stesse succedendo, ha cambiato strada. Noi vedevamo solo elicotteri sulle nostre teste. Sembrava una guerra», racconta Eugenio Bonino, responsabile della comitiva. Il gruppo, dopo l’intervento della polizia, è stato trasferito al porto e reimbarcato. «Stiamo tutti bene ma ripartiremo alla volta dell’Italia non prima di domani».