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Accademia S.Cecilia, si apre la stagione nel segno di Beethoven per la direzione di Pappano al decimo anno alla guida della magistrale orchestra. Standing ovation finale

Accademia S.Cecilia, si apre la stagione nel segno di Beethoven per la direzione di Pappano al decimo anno alla guida della magistrale orchestra. Standing ovation finale

Di SERGIO PRODIGO
Apparirebbe arduo commentare il concerto inaugurale dell’Accademia di Santa Cecilia, svoltosi lo scorso 3 ottobre (con repliche il 5 e il 6) all’Auditorium del Parco della Musica, se si dovessero degnamente e diffusamente evidenziare e chiosare i diversi fattori concomitanti che hanno reso l’evento letteralmente memorabile, ossia da affidare alla memoria storica della nostra classicità musicale. Non si potrà, tuttavia, eludere il doveroso accenno all’incommensurabile valentia di Sir Pappano, al suo decimo anno come Direttore Musicale dell’Accademia ceciliana, all’ideazione di un iniziale ciclo, dedicato alle sinfonie beethoveniane e ad un particolare e “italico” contesto coevo (Cherubini e Spontini) e contemporaneo (tre prime esecuzioni di France-sconi, Sollima e Nieder), alla prestigiosa partecipazione del soprano sudafricano Pumeza Matshikiza, alla trasmissione in diretta su Rai5, alla presenza – fra il folto pubblico – di numerosi esponenti del mondo culturale e politico (basti solo citare il Presidente emerito Napolitano), e, infine, alla straordinaria performance del Coro e dell’Orchestra di Santa Cecilia.
Certamente la proposizione – in prima mondiale – di “Bread, Water and Salt” (per soprano, coro e orchestra) di Luca Francesconi racchiudeva elementi di estremo interesse, sia per il testo, basato su testi di Nelson Mandela (tratti dai diari della prigionia), elaborati secondo la prassi di un’abile e alternato bilinguismo (inglese e “xhosa”, particolare sottogruppo nguni delle lingue bantu dell’Africa meridionale), sia per la chiarezza e l’incisività drammatica di un connettivo musicale di rara efficacia espressiva, non disgiunto – pur nella contestualità di avanzati tecnicismi strutturali – dal retaggio della grande tradizione sinfonica. Notevole s’è rivelata, tra l’altro, una sorta di interazione funzionale della peculiare componente ritmica, sovente intessuta sia di cangianti poliritmie sia di suggestioni fonematiche (in virtù del consonantismo avulsivo tipico delle lingue khoisan), abilmente inserite nel vocalismo strutturale del brano.
Solo una grande interprete, come la Matshikiza, poteva conferire alla complessa scrittura quel vitalismo e quella discontinua narrazione forse connaturata agli intenti compositivi, di là dall’ineccepibile tecnica e dal conseguente virtuosismo palesati: intense le emozioni e le suggestioni trasfuse alpubblico, anche in virtù della rigorosa e fedele aderenza ai medesimi intenti nell’analisi e nell’atto direttoriale di Pappano, sempre coadiuvato dalla perfezione esecutiva delle compagini corali e orchestrali, vieppiù nell’ostico e difficoltoso linguaggio contemporaneo; ampio e intenso, pertanto, il plauso di un pubblico che ben aveva compreso, di là dal citato linguaggio, il particolare messaggio che coniugava significante e significato, ossia – nello specifico – associava la pura musicalità ai valori universali (dignità, libertà e fratellanza) contenuti nelle parole (e nella vita) di Mandela. In tale ideale sfera poteva concretarsi, nella seconda parte del concerto, l’esecuzione della “Nona Sinfonia” di Beethoven.
I rammentati valori dell’esistenza umana, ai quali s’assomma il sentimento della gioia (“Freude”, in tedesco, quasi s’assimila a “Freiheit”, libertà), sono alla base del capolavoro beethoveniano, seppur connessi all’ode schilleriana e afferenti musicalmente ad un consapevole stravolgimento e ad una irripetibile evoluzione della stessa forma sinfonica. Il dar senso e sostanza ad una diversa concezione del genere sembra mutuarsi sì dal testo poetico, ma ne costituisce il solo praetextum, poiché, se i primi tre movimenti dell’op. 125 (I: “Allegro ma non troppo, un poco moderato”; II: “Mol-to vivace”; III: “Adagio molto e cantabile, Andante moderato, Adagio”) appaiono forse – pur nella loro complessità strutturale – ben radicati nel solco della tradizione classica, il celeberrimo e composito “Finale” (“Presto, Recitativo, Allegro assai, Presto, Recitativo, Allegro assai, Allegro assai vivace alla marcia, andante maestoso, Allegro energico sempre ben marcato, Allegro ma non tanto, Poco adagio, Prestissimo”) esula da ogni possibile e pregresso schema formale, impreziosisce avveniristicamente la componente armonica (si pensi solo al brusco e dissonante accordo iniziale!), coinvolge nei processi elaborativi le astrusità contrappuntistiche (si rammentino all’uopo gli artifici fugati delle ultime “Sonate” e degli ultimi “Quartetti”) e libera il tematismo da ogni possibile vincolo fraseologico.
La “Sinfonia n. 9” non appartiene, quasi consequenzialmente, a quel periodo storico, lo travalica, anzi, superando la susseguente epopea romantica e pervenendo alla contemporaneità (e proiettandosi oltre) in quanto musica fuori dal tempo e dallo spazio: occorrerebbe ripercorrere o scandagliare la genesi dell’opera, rilevare l’antico amore di Beethoven per la poesia di Schiller, di seguito chiosare lo schema generale, parafrasare i “recitativi”, ricostruire i “ricordi” citati, rintracciare presso altre sue opere o in altri autori le tracce di quella elementare melodia che sembra emergere dal nulla nella tenue primigenia enunciazione (dei violoncelli e dei contrabbassi) e analizzarne poi gli sviluppi sinfonico-corali, delucidare i “concertati” e, infine, tentare di comprendere la “ratio” e, soprattutto, il “telos” (ossia il fine, il senso, il compimento) di un capolavoro semplicemente “consegnato” all’umanità.
Tutto ciò sarebbe logico in altri ambiti, analogamente alla pura descrizione, pur minuziosa, di tematismi, fraseologie, supporti armonici e svolgimenti vari: basta, di contro, solo il semplice ascolto a rendere la “Nona” “contemporanea” e sincronica al nostro discontinuo mondo, specie se è reiterato più volte, specie se l’esecuzione ne vivifica lo spirito, specie se un “grande” come Pappano la interpreta così come è stata concepita, grazie anche alla bravura dei quattro solisti (il soprano Rachel Willis-Sørensen, il contralto Adriana Di Paola, il tenore Stuart Skelton e il basso Michael Volle), alla magnificenza del coro (mirabilmente preparato dall’eccellente Ciro Visco) e alla indiscussa e inoppugnabile professionalità dell’orchestra ceciliana.
Il finale, con una standing ovation, ha sancito il pieno successo del concerto inaugurale e la stessa ideazione del citato “ciclo” che contrassegna e qualifica una stagione di altissimo livello, tracciata nel rinnovato spirito della “Grande Musica” da Michele Dall’Ongaro, presidente-sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.