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Parco della Musica, secondo appuntamento con “Beethoven e i contemporanei”. Emozionante interpretazione di Pappano alla direzione dell’orchestra dell’Accademia S Cecilia

Parco della Musica, secondo appuntamento con “Beethoven e i contemporanei”. Emozionante interpretazione di Pappano alla direzione dell’orchestra dell’Accademia S Cecilia

Di SERGIO PRODIGO
Secondo appuntamento all’Auditorium del Parco della Musica nel prestigioso ambito del ciclo dedicato a “Beethoven e i contemporanei”: era di scena, lo scorso sabato 10 ottobre (con le abituali repliche del 12 e del 13, cui si aggiunge l’eccellente e significativa performance di domenica 11 presso il Teatro alla Scala di Milano) solo l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Sir Antonio Pappano, che ha eseguito la seconda e la quinta “Sinfonia” di Beethoven, preceduta dall’“Ouverture” dall’“Olympie” del coevo Gaspare Spontini (Maiolati, 1774-1851).

Va certamente e opportunamente rilevato come il compositore marchigiano sia stato uno dei migliori compositori italiani (forse non il più geniale) che fra il Settecento (per intero) e l’Ottocento (in parte), “invasero” letteralmente l’Europa, favorendo ad ampio raggio (Francia, Germania e Russia, soprattutto) la diffusione della cultura musicale della scuola napoletana (più che italiana, forse). In tale contestualità non può (o non poteva) ravvisarsi una sorta di fenomeno migratorio o di profetica “fuga di cervelli”, poiché anche nel nostro paese (pur non irragionevolmente diviso) la musica prosperava, favorita da corti illuminate e da colti mecenati: quella cultura, frutto dell’ingegno italico, s’esportava e quasi creava le correlative tradizioni (musicali, soprattutto) nelle nazioni d’oltralpe, nei multiformi regni teutonici, nell’isolata Albione, nel variegato impero asburgico e nelle sterminate lande zariste.

Il nostro Spontini “imperò” a lungo, specie nella Parigi post-napoleonica (si pensi al successo di opere come “La vestale”, “Fernando Cortez” e la citata “Olympie”) ma anche a Berlino, alla corte di Guglielmo III (si rammentino “Nurmahal”, “Alcidor” e, soprattutto, la versione definitiva di quell’“Agnes von Hohenstaufen”, che tanto “ispirò” Wagner): musica semplice, la sua, per le fraseologie tematiche, di presa immediata e “nobilitate” da una incisiva “inventio” melodica, per i funzionali, seppur tradizionali, supporti armonici e per una strumentazione estremamente accurata, assai lodata da Berlioz.

Elementi tipici, quelli menzionati, del tardo classicismo degli epigoni ma, per taluni versi, intrisi di reminiscenze beethoveniane e – per talune avvisaglie – presaghi dell’incombente epopea romantica: si sono avvertiti nella perfetta esecuzione della fascinosa e tripartita “Ouverture” (“Allegro marcato assai con fierezza” – “Andantino religioso” – “Allegro molto agitato”) da parte dell’orchestra ceciliana e nella inap-puntabile direzione di Pappano.
Similmente, quanto evidenziato sembra rinvenirsi nella stessa “Sinfonia n. 2” in re maggiore op. 36 di Beethoven, di seguito proposta, pur se sarebbe lecito ravvisarvi una sorta di congedo dagli stilemi classici (l’opera venne completata nell’estate del 1802 ed eseguita a Vienna nel 1803), quasi un latente manierismo del sinfonismo dell’ultimo Haydn (ma anche dell’ultimo Mozart): eppure, nello specifico, dopo la plastica mobilità tematica del primo movimento (“Adagio molto” – “Allegro con brio”) e prima della geometrica ritmicità del terzo (“Scherzo: Allegro”) e della giocosa irruenza del “Finale” (“Allegro molto”), si staglia la particolare leggiadria del “Larghetto”.

Certamente apparentato ad altri movimenti lenti, specie a quelli delle “Sonate” pianistiche del primo periodo, rappresenta forse una sorta di congedo proprio da quella classicità, quasi soffusa di un intimismo esacerbato, non privo di melanconiche venature fraseologiche in quell’ambito “maggiore” che rinvia anche al Bach dei “Preludi ben temperati”.
L’esegesi di questa partitura, operata da Pappano, sempre in piena sintonia con la sua orchestra, s’è rivelata perfettamente aderente a tali, pur personalistiche, considerazioni: il pubblico ha ben compreso tale rara compenetrazione e il plauso s’è prolungato a dismisura, in attesa che, nella seconda parte, si reiterasse l’organico connubio e si concretasse la più eclatante e desiderata performance con l’esecuzione della “Quinta”.

Così è stato: la “Sinfonia n.5” in do minore op. 67 non lesina mai rinnovate emozioni, genera sempre entusiasmi, pur se più non “atterrisce” il celeberrimo attacco, quel letterario (e abusato in ogni commento) “destino che bussa alla porta”. Di là dai contenuti d’ogni sorta e dai menzionati impatti emotivi, quell’inciso primigenio, affidato alla massa degli archi e ai clarinetti, tende a condizionare sia il tematismo sia il prosieguo dell’idea medesima; del resto, scrutando in una succinta prassi analitica le appendici motiviche e l’episodio che funge da transito modulante, ogni sequenza appare condizionata dall’iniziale espressione incidentale, persino l’annuncio che introduce il secondo tema, stentoreamente espresso dal timbro dei corni. Il conseguimento della tonalità del tono relativo (mi bemolle maggiore) si concreta nella formulazione del secondo tema, dipanato inizialmente dai violini primi, sostenuto armonicamente dai secondi e dalle viole, puntellato dal pedale interno di dominante dei corni, ma significativamente “commentato” dalla reiterazione dell’inciso, quasi “sussurrata” dai violoncelli e dai contrabbassi.

La breve chiosa analitica, necessariamente tecnica, consente unicamente di spiegare o, meglio, interpretare la logica compositiva del Nostro, evidenziando la stretta connessione e interdipendenza del principio bitematico e rilevando come l’intero primo movimento (“Allegro con brio”) si avvalga nel suo svolgimento proprio dello scarno materiale esposto, ma progressivamente tenda vieppiù a consolidarsi in una superba e rigorosa architettura.
Consequenziale nel rigore strutturale anche il secondo movimento (“Andante con moto”: sembra articolarsi come un “tema con variazioni”, ma non disdegna in più momenti di esprimere una reboante eroicità, forse tesa ad attenuare la drammaticità del fato evocato nel primo. Tuttavia, spetta proprio al susseguente “Scherzo” (“Allegro”) l’ingrato compito di tessere nuovamente le trame della tragicità, preannunciate dagli iniziali e sinistri moti di violoncelli e contrabbassi e, dipoi, corroborate dalla maestosa tematicità dei corni e (di seguito) dell’intera massa strumentale, che in una difforme ritmicità riecheggia il celebrato e primigenio inciso.

L’intermezzo fugato del possibile “Trio” non stempera certamente quella trama, anzi tende a drammatizzarla, favorendone nel contempo la logica ripresa: ma il movimento non s’avvia verso la sua naturale conclusione, poiché su un prolungato e caudale pedale di archi e timpani si attua una sorta di innaturale staticità poco espressiva, con larvate citazioni frammentarie che sfociano nella “sospensiva” sovrapposizione accordale di dominante (una tetrade pur sempre innestata sul citato pedale di tonica). Irrompe “ex abrupto” e – per la prima volta in un contesto sinfonico (ma Beethoven aveva già “inventato” tale dispositivo in opere pianistiche come “L’aurora” e “L’appassionata”) – senza la consueta cesura il “Finale” (“Allegro”); la “conquista” definitiva del “maggiore” si esplica e si espleta in una solida e trionfante struttura, tenacemente ancorata ai canoni del bitematismo e della tripartizione: eppure, all’interno sia dello sviluppo sia della caudalità della ripresa, si innestano brevi e irrituali reminiscenze dello “Scherzo”, quasi a suggellare l’unitarietà di una straordinaria concezione compositiva, che si glo-rifica, infine, nel riepilogativo, grandioso e terminale “Presto”.

Al termine dell’esecuzione del capolavoro beethoveniano, interpretato da Pappano e dalla compagine orchestrale con travolgente perfezione, l’incontenibile entusiasmo del pubblico si è conseguentemente manifestato in una prolungata messe di applausi e di ovazioni.
A margine e nello spirito della continuità della grande tradizione musicale ceciliana, si può rammentare – poiché impresso nella memoria di chi scrive – un lontano evento del 1967: l’Orchestra dell’Accademia, diretta da Fernando Previtali (all’Auditorium di Via della Conciliazione) eseguiva con somma maestria sia l’“Ouverture” dall’“Olympie” di Spontini sia la “Quinta” di Beethoven!