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Parco della musica, ultimo appuntamento con Beethoven: emozionante “Eroica” per la direzione di Pappano e dell’orchestra ceciliana

Parco della musica, ultimo appuntamento con Beethoven: emozionante “Eroica” per la direzione di Pappano e dell’orchestra ceciliana

Di SERGIO PRODIGO
Il quinto (e ultimo) appuntamento del ciclo dedicato a “Beethoven e i contemporanei”, in scena nella festività di Ognissanti (con repliche il 2 e il 3 novembre) all’Auditorium del Parco della Musica, ha riservato al fedele pubblico ceciliano una memorabile e “grandiosa” interpretazione dell’“Eroica” da parte di Sir Antonio Pappano e dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, preceduta programmaticamente dalla “Sinfonia n. 1” e dalla “prima” di un brano (commissionato per l’occasione ciclica dall’Accademia ceciliana), “Danza lenta di C. S. tra gli specchi”, scritto dal compositore italo-tedesco Fabio Nieder.
Eseguita in apertura e opportunamente “introdotta” da un preliminare commento esegetico dello stesso Pappano, l’opera di Nieder s’è rivelata di difficile assimilazione, in quanto elaborata su complesse configurazioni cicliche, o forse ricorsive, in seno alle quali l’elemento ritmico sembra assumere una funzione quasi generativa, seppur associato ad una sorta di strutturalismo timbrico a sezioni, la cui coesione sequenziale è connessa all’emersione topica di individualità strumentali (arpa, percussioni mirate e intrichi atemporali di tre ottavini).
Si tratta solo di una possibile decodifica, scaturita dal semplice impatto auditivo, che abbisognerebbe, tuttavia, di una necessaria verifica, conseguente all’esame della relativa partitura: è indubbio che il processo analitico, operato da Pappano, ne abbia saputo pienamente compenetrare il si-gnificato e renderne logica la stessa intenzionalità compositiva, coadiuvato dalla professionalità di strumentisti in grado di affrontare e forgiare musicalmente anche i linguaggi più ostici e astrusi.
Buona la risposta del pubblico: non ha lesinato applausi all’orchestra e al suo direttore, ben consapevole dell’ardua performance, ma ha saputo estendere equamente il plauso all’autore, in virtù di una composizione che obiettivamente s’è rivelata ricca di suggestioni e fortemente dotata di un notevole significante emozionale.
Di seguito l’attesa proposizione della “Sinfonia n. 1” in do maggiore op. 21 di Beethoven: scritta proprio nell’ultimo anno del diciottesimo secolo, sembra quasi avviluppata nelle spire di quel classicismo tardo-settecentesco di stampo mozartiano o, con maggiore apparentamento, haydniano. Eppure, il primo “approccio” sinfonico del Nostro rivela, ad un’analisi più approfondita, almeno l’intuizione di una diversa via che il genere medesimo poteva (e doveva) intraprendere. Basti rilevare in tutti i suoi quattro movimenti (I: “Adagio molto-Allegro con brio”; II: “Andante cantabile con moto”; III: “Minuetto: Allegro molto e vivace”; IV: “Adagio-Allegro molto e vivace”) la presenza di almeno tre sostanziali e non occasionali innovazioni o, meglio, mutazioni: la brevissima fase introduttiva e l’affastellamento di episodicità transeunti nel primo e quarto movimento, l’estensione del bitematismo sonatistico al movimento lento e la netta metamorfosi del rituale “Minuetto” nella concezione di un più energico e significativo “Scherzo”. Certamente la componente motivica appare quasi vincolata agli stilemi o alle derivazioni menzionate, tuttavia, il trattamento e l’elaborazione del materiale tendono a racchiuderlo o conglobarlo quasi in una logica edificatoria di matrice kantiana, conferendo organicità e coerenza espositiva alla stessa struttura sinfonica.

Pappano ha restituito in certo qual senso alla “Prima” questa particolare ipotesi costitutiva, donandole una sorta di inebriante energia propulsiva ed evidenziando nella giusta misura sia l’insita dinamicità sia la naturale espressività; la conseguente ineccepibile e, per tali versi, “innovativa” esecuzione ha infiammato gli astanti: ovazioni e acclamazioni, ma s’attendeva poi – forse con trepida aspettativa – l’“Eroica”.
Nella seconda parte, appunto e come logica conclusione del ciclo, la “Sinfonia n. 3” in mi bemolle maggiore op. 55: anch’essa è stata restituita da Pappano alla sua originaria concezione creativa, ma, prima di commentare brevemente la sua (magnifica e pur sempre innovante) esecuzione, si deve premettere (e reiterare) una non con-tenuta descrizione, anche di natura extramusicale, che non prescinda nel contempo dalla formulazione di talune interpretazioni essoteriche e, al tempo stesso, esoteriche.
È noto che quando Beethoven si accinse alla sua composizione la figura di Napo-leone, al quale il lavoro doveva essere dedicato – anche dietro le pressanti insistenze del generale Bernadotte, ambasciatore in quel tempo presso la corte di Vienna – era in certo qual senso idealizzata, incarnando e rappresentando sia lo spirito razionalistico dell’Illuminismo sia l’aspirazione dei popoli a liberarsi della tirannide. In tale contesto l’opera venne concepita gradatamente, attraverso un lento processo di maturazione; la stesura definitiva avvenne fra l’estate del 1803 e la primavera del 1804, nella quiete campestre del villaggio di Débling, nei pressi di Vienna, ma il Nostro lacerò violentemente e rabbiosamente il frontespizio della partitura (intitolata, appunto, “Bonaparte”), allorché apprese dall’amico Ferdinand Ries che Napoleone si era fatto proclamare imperatore. La “Sinfonia” assunse semplicemente la denominazione di “Eroica”, senza alcuna dedica ma «composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo», pur se i contenuti programmatici restavano fortemente legati ai princìpi ispirativi e, allo stesso tempo, testimoniavano di un’intima concezione idealistica, tesa ad interpretare i grandi eventi dell’epoca, attraverso l’acquisizione razionale di una supposta o ipotetica simbologia dei quattro elementi della tradizione filosofica.

In tale ottica l’intero affresco sembrerebbe interpretare i tratti dell’evoluzione umana nella logica delle antiche ritualità: il primo movimento, nella sua grande spazialità temporale, potrebbe simboleggiare l’aria, lo spirito vitale del mondo; il secondo, la celebre “Marcia funebre”, con i suoi richiami alla caducità e al senso immanente del passaggio, rappresenterebbe la terra, mentre il limpido fluire del tempo si avvertirebbe nel terzo, caratterizzato dall’incalzante ritmo ternario, nell’evidente simbologia dell’acqua. L’ultimo elemento mancante, il fuoco, sarebbe presente nel quarto movimento, frutto dell’intenzionale autocitazione, operata dallo stesso Beethoven, attraverso il tema delle “Creature di Prometeo”.
Nel primo movimento, l’ Allegro con brio”, il tema principale, nella sua scarna semplicità, riassume in pratica la triade perfetta dell’accordo di mi bemolle maggiore. Non è un caso che tale tematismo sia presente in un Singspiel giovanile di Mozart, “Bastiano e Bastiana”: ma in Beethoven il senso della forza e della potenza trova il modo di esaltarsi e di amplificarsi. Infatti, il bitematismo tipico della forma-sonata è solo apparente: in realtà, dal tema principale si generano sviluppi tematici continui, sovente definiti ampiamente e non stemperati dalle frequenti code, che ne costituiscono il naturale corollario. È come se il suo genio avesse edificato una piramide, dal cui vertice discendesse la storia umana, allargando lo spazio delle sue conoscenze fino alla base, alle fondamenta dell’esistenza medesima. A tale base non s’incontra che la terra, il secondo movimento, l’“Adagio assai”: è ugualmente ravvisabile un netto bitematismo, ma con maggiore distinzione di ruoli. Il senso del passaggio si avverte soprattutto nel ritmo sotteso di corteo funebre, anche se un successivo e grandioso fugato centrale sembra sovvertire proprio gli intenti descrittivi, come se un più grande evento tragico si volesse evocare: l’ineluttabilità del ritorno alla polvere iniziale. Così l’eroismo o, meglio, il furore eroico si trasformano in semplice e meditata umanità: le aspre combinazioni di accordi, le stridenti dissonanze di seconda, gli accordi medesimi di settima diminuita e di quinta e sesta eccedente indicano e segnano la difficoltà dell’esistere.
Ma dal dolore nasce la speranza, dalla sofferenza il coraggio, dalla stasi la forza e l’energia: così si genera e si origina il terzo movimento, l’“Allegro vivace”. Lo “Scherzo”, dopo le intense evocazioni precedenti, può apparire meno espressivo, quasi una rapida transizione verso il “Finale”: invece la sua instabilità armonica – solo alla centonovantasettesima battuta il tema viene esposto nel tono di mi bemolle maggiore – testimonia di una meditata ricerca timbrica, che si esplica nel dialogo serrato fra i fiati e gli archi, e di un progressivo affermarsi del senso della gioia, pur nei richiami eroici, che i corni evidenziano nel “Trio”; del resto, la ripresa dello “Scherzo”, lungi dall’essere una semplice ripetizione, contiene elementi significativi e certamente innovativi, come il riecheggiare del tematismo dei corni, l’episodio “alla breve” e la singolare “Coda”, nella quale il pianissimo dei timpani prelude, attraverso il crescendo, all’esplosione del “Finale”. Come non avvertirvi il senso della vita che rinasce, che si condensa e si evolve dalla materia che è all’origine di tutte le forme vitali, da quel liquido che ha cullato tutti gli embrioni delle specie viventi? Se la vita rinasce, se le energie riaffiorano per sostenerla, è l’umanità stessa che affronta la prova finale, la sua definitiva purificazione, attraverso l’esposizione all’elemento basilare che cauterizza le ferite e le piaghe più profonde, quel fuoco simboleggiato da Prometeo.

Ed ecco il miracolo del quarto movimento, l’“Allegro molto”. Lo schema è quello del tema con variazioni, ma quanta distanza da similari elaborazioni! Dopo il vorticoso inizio, quel tema, appena accennato, si esalta nella limpidezza della prima variazione e nella metrica a terzine della seconda, entrambe affidate agli archi, che sembrano generarsi con magica naturalezza. Ma già la terza variazione tende a stravolgere i contenuti tematici, affidandosi alla timbricità dei fiati sul tessuto di semicrome degli archi, mentre il fugato che caratterizza la quarta, avvalendosi della forma originaria del tema, serve quasi d’introduzione alla quinta variazione, una sorta di marcia tragica. La polivalenza preparatoria è presente anche nell’episodio assunto come sesta variazione: la plasticità melodica si spiana nei modi maggiore e minore del “do”, quasi in un momento d’idillica riflessione, che non può non sfociare nel “Poco Andante”. La reale e trasparente bellezza di tale episodio è forse sconcertante, perché non è facile ravvisarvi le tensioni emotive precedenti, se non il richiamo soffuso, ma di tragica presenza, delle frasi della “Marcia funebre”. È soltanto un attimo del ricordo, anche se di infinita ampiezza: il “Presto” conclusivo irrompe quasi con violenza, o con gioia liberatoria, nel vorticoso dilagare del moto continuo degli archi e dei legni. Il tema si affranca e si libera da ogni ulteriore condizionamento e la Luce viene, in tal modo, definitivamente raggiunta e conquistata.
Quanto (forse) prolissamente descritto s’è potuto chiaramente intendere nella relativa esegesi, che Pappano ha operato con estrema coerenza sulla partitura beethoveniana, sempre con l’ausilio a livello esecutivo dalla magnifica compagine ceciliana, rinnovando (forse a personale parere) e rinvenendo i veri e autentici contenuti del linguaggio e della poetica del Nostro, senza indulgere in una eroicità di maniera o cedere a ben accette (in genere) magniloquenze, nel contesto di un ciclo inteso a glorificare, ma senza enfasi (appunto), il suo monumento sinfonico. Tuttavia il senso del “grandioso”, citato all’esordio, s’è comunque disvelato, attanagliando e coinvolgendo un pubblico che, alla fine, è letteralmente “esploso”, tributando agli interpreti esuberanti e inestinguibili ovazioni.