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Parco della Musica, di scena il “Requiem” di Verdi per la magistrale direzione di Manfred Honeck.

Parco della Musica, di scena il “Requiem” di Verdi per la magistrale direzione di Manfred Honeck.

Di SERGIO PRODIGO
All’Auditorium del Parco della Musica, dopo il ciclo beethoveniano, è andato “in scena” – sabato 7 novembre (con repliche il 9 e l’11) – il “Requiem” di Giuseppe Verdi nella magistrale interpretazione del direttore Manfred Honeck, di quattro eccellenti solisti (il soprano Krassimira Stoyanova, il mezzosoprano Luciana D’Intino, il tenore Giorgio Berrugi e il basso Liang Li), dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Non a caso l’accezione “scenica” può configurare l’evento nella sua contestuale proposizione concertistica, poiché il capolavoro verdiano, scritto e trionfalmente eseguito a Milano nel 1874 (poi trionfante anche nel resto d’Europa), concepito – com’è noto – quale doveroso omaggio commemorativo al nume tutelare dell’Italia letteraria (il Manzoni, naturalmente), serba e innaturalmente vivifica i distintivi e consolidati elementi melodrammatici, pur spogliati della loro tipologia paludata, ma reificati nella insita drammaturgia rappresentativa. Inoltre, di là da una interattiva componente di religiosità, sempre indefinita se non carente nel libero pensiero del Nostro, lo spirito che anima e pervade questo immenso affresco sacro potrebbe rinvenirsi nella sua mai sopita volontà di cimentarsi o di rinnovarsi in altri generi (si pensi all’eccelso “Quartetto” in mi minore per archi, composto nel 1873), specie dopo le gloriose rappresentazioni di quell’“Aida” che sembrava aver concluso la stessa parabola operistica.

In effetti, la “Messa da requiem” per soli, coro e orchestra non è certamente affine e consequenziale ad analoghe opere della prima metà dell’Ottocento (la severa e riflessiva classicità del “Requiem” di Cherubini o la mastodontica magniloquenza della “Grande Messe des morts” di Berlioz) e, in certo qual senso, Verdi tendeva (o intendeva) a trasporre e trasmutare nell’ambito sacrale e commemorativo una sorta di rappresentazione drammatica, come se la stessa “Messa” – secondo un’acuta e sintetica chiosa di Claudio Casini – «fosse un palcoscenico di vicende storiche». Il necessario omaggio alla memoria di un grande fungeva da ‘praetextum”, poiché, oltre gli innegabili riferimenti letterari e l’utilizzo di materiali elaborati in precedenza (il finale “Libera me” era stato composto anni addietro per un vagheggiato “Requiem” a più mani, inteso a commemorare Rossini), poteva anche concretarsi quel preconizzato “ritorno all’antico”, mediato da una possibile restaurazione polifonica e dall’adozione cosciente di mai obliate tecniche contrappuntistiche: elementi molteplici e multiformi, quindi, in grado di assicurare unitarietà d’intenti espressivi ed esplicativi a quel linguaggio verdiano che il citato Casini individuava e conglobava nella «musica scenica».
Un’analisi particolareggiata del “Requiem” potrebbe e dovrebbe, tuttavia, evidenziare ogni possibile caratteristica tecnico-musicale di una complessa e monumentale partitura, ma l’intento esulerebbe da un più contenuto e necessario compito descrittivo che, di contro, ne può cogliere la genesi compositiva e, appunto, l’ingegnosità rappresentativa. L’esordio (coro e quartetto solistico) sembra alternare il pathos espressivo del “Requiem aeternam” al confortante lirismo di “Et lux perpetua”, ma il susseguente “Kyrie” si arricchisce di strutture imitative e di tortuosità armoniche. Dipoi l’apocalittico “Dies irae” si rivela essere, sin dalle prime icastiche battute, il vero topos ideativo e costitutivo dell’intera “Messa”. L’antica sequenza è suddivisa in dieci sezioni, con varia distribuzione delle parti solistiche e corali “Dies irae” (coro), “Tuba Mirum” (basso e coro), “Mors stupebit” (basso e coro), “Liber Scriptus”, (mezzosoprano, coro), “Quid sum miser” (soprano, mezzosoprano, tenore), “Rex tremendae” (solisti, coro), “Recordare” (soprano, mezzosoprano), “Ingemisco” (tenore), “Confutatis” (basso, coro) e “Lacrymosa” (solisti, coro).

Certamente il “terrificante” inizio sembra cedere eccessivamente alla teatralità, esaltata da incalzanti scalarità, reiterati cromatismi e timbrici impatti accordali: ugualmente si avverte tale ricercata impronta nel reboante episodio che precede il “Tuba Mirum”, in virtù degli scambi dialogici fra le trombe (in scena e fuori scena) e del complessivo massiccio impiego degli ottoni. Anche nel prosieguo della sequenza è agevole rinvenire squarci marcatamente “operistici”, pur se nobilitati da una rinno-vata “inventio” di rara efficacia espressiva, specie nelle sezioni affidate ai solisti: proprio nell’ultima, il “Lacrymosa”, preceduta dall’inattesa ripresa del “Dies irae”, l’autocitazione si evidenzia maggiormente e si tinge di commosso e partecipe lirismo nell’enunciazione di un tema, tratto da un (soppresso) duetto dal “Don Carlos”, che forse evoca lontane ascendenze e suggestioni gregoriane.

Il citato “ritorno all’antico”, ossia ad artifici polivoci o precipuamente contrappun-tistici, si rinviene sia nell’“Offertorium”, suddiviso in tre sezioni (“Domine Jesu Christe”, “Quam olim Abrahae” e “Hostias”) e affidato al quartetto solistico, sia nel “Sanctus”, concepito nella particolare ed estremamente elaborata struttura “a due cori”: nello specifico si può evidenziare anche quella atipicità e unicità del “fugato” verdiano – già sperimentato nel “Preludio” dell’“Aida” – non scevro da talune “licenze” ma asservito agli intenti dell’azione drammatica (scenica o ideale). Di contro, il susseguente “Agnus Dei” si spoglia di ogni intrico polifonico: tende a prevalervi, alla stregua di un “cantus firmus”, una ieratica linea melodica, priva di supporti armonici, quasi declamata dal soprano e dal mezzosoprano e, di seguito, dal coro, dai legni scuri e dagli archi con unisoni e raddoppi d’ottava; il conseguente sviluppo gradatamente tende a recepire un minimo di ispessimento armonico, mai preponderante, quasi dissolto “in cauda” dalla tenue triadicità del “do” maggiore.

Infine, dopo il “Lux aeterna”, pagina di intensa e meditata espressività, assegnata al terzetto scuro dei soli (mezzosoprano, tenore e basso) e tratteggiante il momento del trapasso, il terminale e grandioso “Libera me”: è pur vero che Verdi – come già rammentato – utilizza quel materiale destinato a celebrare Rossini, ma vi innesta un potente recitativo iniziale del soprano solista e del coro, una sorta di “arioso” (con tratti quasi declamati) del soprano, inedite e non brevi citazioni sia del corale “Dies irae” sia del “Requiem aeternam” (ma per soprano e coro a cappella) e, infine, una “grandiosa” fuga finale. Si tratta di una superba struttura architettonica, basata su un soggetto accordale derivato (un’abile e non casuale inversione del tema del “Sanctus”), alla quale concorrono sia le masse corali-orchestrali sia il soprano solista (negli “stretti” terminali). Tuttavia, il “Requiem” non si conclude con l’apoteosi della forma prescelta, che in una visione confessionale avrebbe mirato a significare o simboleggiare le tematiche della salvazione, della redenzione e della vita eterna: la laicità di Verdi si esprime, invece, nella tenue ripresa dell’iniziale supplica “recitata”, il “Libera me”, pur se nuovamente è ancora la triadicità del do maggiore a suggellarne l’ultima enunciazione.

La proposizione del “Requiem” verdiano costituisce di per sé un evento memorabile, in tutte le possibili accezioni della stessa aggettivazione: sono stati, tuttavia, quasi novanta minuti di intensa emozione e partecipazione, condivise dal pubblico ceciliano, che ha indugiato lunghi istanti al termine dell’esecuzione, attendendo che, dopo l’ultimo morente accordo, il direttore lasciasse lentamente esaurire il gesto medesimo. Poi, l’inevitabile uragano di applausi e ovazioni, rivolte a Manfred Honeck, all’orchestra, al coro e ai quattro straordinari solisti.

Certamente l’interpretazione di Honeck, assecondato e coadiuvato da una compagine orchestrale sempre perfetta in ogni sezione strumentale e da un coro magnificamente preparato da Ciro Visco, ha conferito forza, dinamismo e potenza espressiva al capolavoro, ma a tutto ciò s’è aggregata la superba performance dei quattro solisti, il soprano Krassimira Stoyanova (splendida protagonista assoluta e voce sublime, per nulla minata da una accidentale e annunciata “infreddatura”), il mezzosoprano Luciana D’Intino, il tenore Giorgio Berrugi e il basso Liang Li (eccelsi e inappuntabili interpreti).