• Home »
  • Ambiente »
  • Parco della Musica, tris di compositori e di opere. Al violino Michael Barenboim per la direzione di Sir Pappano

Parco della Musica, tris di compositori e di opere. Al violino Michael Barenboim per la direzione di Sir Pappano

Parco della Musica, tris di compositori e di opere. Al violino Michael Barenboim per la direzione di Sir Pappano

di SERGIO PRODIGO
Dopo “Born in The U.S.A.”, ancora tre compositori in scena all’Auditorium del Parco della Musica e tre difformi opere, eseguite lo scorso sabato 23 gennaio (con repliche il 25 e il 26) dall’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Sir Antonio Pappano, con la partecipazione del violinista Michael Barenboim: anche in tal caso si sono avvicendate ed espresse tre diversificate espressioni musicali e concezioni compositive, dal “fin de siècle” tardoromantico ma anche dicotomico, poiché ravvisabile ed esplicantesi sia nei languori e nei toni decadenti di Gabriel Fauré “(la Messe de Requiem”, proposta nella seconda parte) sia nelle tinte impressioniste e nei profetici contesti armonici di Debussy (il “Prélude à l’après-midi d’un faune”, brano d’apertura), al Novecento storico del dodecafonico “Concerto” (per violino e orchestra) di Schönberg.

La poliedricità di un tal programma non potrebbe (o può) agevolarne l’apparente comprensione, ma certamente ne illustrerebbe (o ne illustra) la disuguale e conseguente ricezione, poiché sarebbe (ed è) logico che la musica visibile mostrasse (e mostri) o rivelasse (e riveli) sempre le sue dualità fondamentali, ossia la sua estrinseca rappresentazione e l’intima sua struttura formale. Nella specificità è naturale che – secondo l’ordine propositivo – si possa palesare e configurare come sensitiva, descrittiva ed emozionale (Debussy) oppure come irta, astrusa e razionale (Schönberg), ovvero, infine, come evocativa, riflessiva e recondita (Fauré). Ogni possibile attribuzione attiene sempre all’espressione musicale, fantasiosa o razionale, solo se ben supportata da una vena creativa autentica.

Di là dalla digressione, il capolavoro debussyano si pone e s’impone con estrema naturalezza, sin dall’iniziale melopea del flauto: un tessuto sonoro che si amplia e si propaga, in grazia di cangianti armonie ben meditate, seppur complesse, e di una timbricità ricercata, non aliena dalla tipicità di effetti coloristici. L’interpretazione medesima del simbolismo poetico di Mallarmé si traduce in pura raffigurazione o trasposizione musicale, senza che si concreti solo il collaterale descrittivismo, pur latente. L’esecuzione di tal capolavoro esige perfezione assoluta: così è stato, in virtù di una raffinata concertazione e direzione da parte di Pappano, ma anche di una straordinaria, ineccepibile e intensa interpretazione dei fondamentali passi solistici da parte di Andrea Oliva, primo flauto dell’orchestra ceciliana.

Di seguito il “Concerto” per violino e orchestra di Arnold Schönberg, composto nel triennio 1934-36: per descrivere il complesso lavoro, occorre addentrarsi, seppur sommariamente, nei meandri tecnici della dodecafonia e del serialismo, ossia di una razionalistica concezione della modalità compositiva, basata sulla formulazione di una originaria sequenza dei dodici possibili suoni, delle sue inversioni e retrograda-zioni e delle conseguenti trasposizioni. Se l’atto creativo consiste, pertanto, nella preliminare ‘inventio’ della serie primaria, il sistema dodecafonico si pone in un’ottica assolutamente alternativa e non ampliativa del sistema tonale: non vi sono né riferimenti, o estensioni, legami e attinenze, ma un’autonoma normativa della stessa organizzazione dei suoni, in un contesto slegato e del tutto svincolato dai rapporti armonici e, soprattutto, dalla predominanza di poli e funzioni tonali, che si realizza e si concreta attraverso l’assoluta indipendenza e parità dei medesimi dodici suoni del totale cromatico. Siffatta metodologia si basa sulla razionalizzazione del principio seriale, che indica e definisce la serie iniziale e le forme derivate come l’unica fonte e fon-damento basilare, cui attingere il materiale essenziale e necessario per l’edificazione delle strutture melodiche ed armoniche di una composizione musicale, pur concepita ed elaborata secondo le forme tradizionali.

Il “Concerto” schönberghiano s’avvale, pertanto, sia di bitematismi e di sviluppi sia della tripartizione classica dei movimenti (“Poco Allegro” – “Andante grazioso” – “Finale: Allegro”), nondimeno il suo ascolto risulta arduo e di difficoltosa assimilazione, anche per una scrittura di estrema complessità lessicale. L’esecuzione richiede doti e capacità tecniche assolute, certamente palesate dall’intera compagine orche-strale e dalla perfetta lettura esegetica di Pappano, ma – nello specifico – esibite con pregevole efficacia e con indubbia maestria dal talentuoso figlio d’arte, Michael Barenboim. Eccezionale la sua performance, che sovente s’è dipanata in una ininterrotta sequenza di ogni possibile virtuosismo: il foltissimo pubblico ne ha pienamente apprezzato il senso e il valore, tributandogli intense e prolungate ovazioni.

Nella seconda parte la “Messe de Requiem” per soli, coro, organo e orchestra op. 48 di Gabriel Fauré: si tratta di un capolavoro “laico”, composto fra il 1887 e il 1888, ossia ben lontano dalle implicazioni drammatiche e rievocative di altri similari, seppur eccelsi, lavori. Se è assente l’insita tragicità o ineluttabilità del trapasso, nelle stesse strutture e impianti formali dei sette brani costitutivi (“Introito e Kyrie: Molto largo” – “Offertorio: Adagio molto” – “Sanctus: Andante moderato” – “Pie Jesu: Adagio” – “Agnus Dei: Andante” – “Libera me Domine: Moderato” – “In Paradi-sum”: Andante moderato”) si ravvisano elementi mistici e contemplativi, lontani da visioni apocalittiche (anche per l’esclusione del rituale e terrificante “Dies irae”) e che s’avvalgono, beneficate da un pregevole sostrato armonico e da sapienti trattamenti contrappuntistici, di linee melodiche pure, adombrate di ascendenze paleocristiane.

Eccellenti e straordinari tutti gli interpreti, dall’ineguagliabile Pappano e dai due solisti, il baritono Vito Priante e, soprattutto, il soprano Lisette Oropesa, all’Orchestra dell’Accademia e all’inappuntabile organista Daniele Rossi, ma è d’uopo evidenziare (come sempre, del resto,) la magnifica prestazione offerta dal Coro dell’Accademia, accuratamente preparato dalla professionalità e dall’estro di un direttore come Ciro Visco. Gli astanti li hanno lungamente applauditi, decretando l’ennesimo successo per la ricca e variegata stagione concertistica, di altissimo livello, dell’Accademia di Santa Cecilia.